In un mondo in cui si dà sempre più valore all'equilibrio tra vita personale e lavoro, quanto conta la felicità negli ambienti di lavoro? In occasione del Blue Monday, il giorno più triste dell’anno, parliamo di cambiamento positivo e di chi può portarlo in azienda: il Chief Happiness Officer.
Per questa nuovissima figura (se ne contano solo 1.500 all’incirca in tutto il mondo), la felicità è l'ingrediente mancante da aggiungere a ogni attività di planning.
L’equazione felicità = produttività è scientificamente provata: secondo una recente ricerca condotta della Saïd Business School dell’Università di Oxford sui lavoratori della British Telecom, la felicità e la soddisfazione sul lavoro aumentano la produttività del 12% e, come si può vedere nel grafico sotto, ha un impatto anche sulle vendite. Secondo uno studio più datato, ma ancora molto valido, dell’Harvard Business Review una workforce felice e ingaggiata in media aumenta le vendite del 37%, la produttività del 31% e la precisione nell’esecuzione dei task del 19%.
Il Chief Happiness Manager è un HR Manager, ma spesso anche un CEO o un imprenditore, che crede fortemente che i collaboratori felici siano anche i migliori collaboratori.
Jenn Limm, CEO e Co-Founder di Delivery Happiness, prima società al mondo di “coach|sulting” (coaching + consulting) in ambito people and culture, dice:
“A CHO is doing what any CEO does in an organization - putting the people/resources/financing in place to create a sustainable company. The difference between a CEO and a CHO is that a CHO is doing it through the lens of happiness as a business model.”
Il CHO, dunque, non ha un ruolo simbolico, ma altamente strategico all’interno dell’azienda. Per quanto di primo impatto possa sembrare un approccio “hippie”, l’obiettivo di aumentare la felicità tra i collaboratori ha dei ritorni economici importanti poiché avere lavoratori più soddisfatti si traduce in:
Operativamente, ogni processo che riguarda il rapporto tra lavoratore e azienda può essere intrapreso con un approccio happiness-oriented: tutto ruota intorno alla soddisfazione del candidato e/o collaboratore. Dunque, il CHO si occupa di ottimizzare il processo di selezione e onboarding, di definire nel migliore dei modi i piani di carriera, di gestire le performance, l’engagement, le transizioni, i pensionamenti e così via.
Dal punto di vista strategico, il CHO ha un forte impatto anche sull’identità aziendale e si occupa di quattro aspetti fondamentali, considerati i pilastri del suo ruolo e, di conseguenza, della sua missione.
Come si fa a diventare CHO nella propria azienda? Come accennavamo prima, HR Manager, CEO, imprenditori ma anche consulenti possono intraprendere un percorso per diventare Chief Happiness Officer. Per farlo, è necessario ottenere la certificazione in Scienza della Felicità e Management rilasciata dall' Italian Institute of Positive Organizations. L’organizzazione si affida al sistema “open badge”, uno strumento digitale utile a mappare, acquisire e valorizzare le competenze: la certificazione, composta dall’acquisizione di otto moduli, non ha scadenza. Il percorso è legato all’ottenimento di otto competenze specifiche, utili per accreditarsi come Chief Happiness Officer certificati.
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Per un’azienda, dal punto di vista pratico, è un vantaggio avere collaboratori felici: monitorando e analizzando i livelli di felicità dell’organizzazione, si è in grado di prevedere e gestire con precisione il coinvolgimento dei dipendenti e la retention, e avviare processi di employer branding.
Oggi, con l’entrata nel mondo del lavoro di nuove generazioni, particolarmente attente ai valori aziendali e al work-life balance, la questione della soddisfazione sul posto di lavoro ha assunto un’importanza ulteriormente strategica; il CHO potrebbe essere la figura mancante che serve per rendere più accattivante e approachable ogni tipologia di azienda, di qualsiasi settore di business.
La scienza della felicità potrà sembrare ai più scettici una pseudoscienza dal sapore new age, ma è semplicemente un approccio differente, e forse migliore, per raggiungere obiettivi condivisibili da qualsiasi organizzazione: essere di successo e attrarre e trattenere i propri talenti.
È ormai risaputo che il Blue Monday, il giorno più triste dell’anno che cade il terzo lunedì di gennaio, sia una bufala. Questa ricorrenza, che si vanta di essere frutto di un calcolo preciso, in realtà è priva di qualsiasi fondamento scientifico: i valori presi in considerazione per questa formula, come le condizioni climatiche, l’ammontare dei debiti o il tempo trascorso dal Natale, in alcuni casi non sono quantificabili e, in generale, non ne vengono specificate le unità di misura.
Lo “studio” che ha identificato il Blue Monday è stato commissionato da un’agenzia di viaggi inglese che voleva spingere più persone a prenotare vacanze nel mese di gennaio. La trovata marketing era semplice: è scientifico essere più tristi in questo particolare momento, perciò la cosa migliore da fare è prenotare un viaggio per tirarsi su.
Blue Monday o meno, certamente gennaio non è tra i mesi più facili: le vacanze di Natale sono alle spalle e il clima cupo e freddo non aiuta l’umore. Per questo motivo, questo è il momento adatto per intraprendere piccole attività o iniziative che diano un boost di positività: con l’anno nuovo appena iniziato, prestare particolare attenzione al benessere dei collaboratori è strategico per tutta l’organizzazione, in modo che l'ambiente di lavoro sia più positivo e i lavoratori più felici e produttivi.
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