Uno dei pochi videogiochi, se non l’unico, di cui si conosca il nome del creatore è Minecraft. Notch, pseudonimo di Markus Persson, ha scritto un gioco che registra mediamente circa 140 milioni di utenti attivi al mese, battendo qualsiasi tipo di record e abbattendo, appunto, anche quell’invisibile barriera dell’anonimato che da sempre caratterizza il settore videoludico.
Il mondo del gaming, così come quello delle app, galleggia infatti in una galassia dove le persone scompaiono: nonostante sia ovvio che qualsiasi interazione legata a un videogame o a un’applicazione sia dettata dal progetto di un team di persone che ci hanno lavorato, nessuno sembra mai prestarci troppa attenzione.
Una tale depersonalizzazione del prodotto è però inversamente proporzionale all’apporto e all’impegno dei singoli professionisti, ingredienti indispensabili affinché questo stesso prodotto arrivi innanzitutto sul mercato e poi abbia, eventualmente, anche successo.
Silvia Teodosi è una game designer e game project manager alla quale abbiamo chiesto di raccontarci qual è la genesi di un’app (o di un videogioco) e come il suo lavoro e quello dei team che guida sia fondamentale alla buona riuscita di un’esperienza virtuale, qualsiasi essa sia.
Quando mi chiedono che lavoro faccio rispondo sempre che sono autrice di libri, contenuti editoriali e app per bambini: professioni diverse, ma molto legate l’una all’altra.
Dopo essermi laureata in Lettere, il mio sogno era l’editoria: ho quindi frequentato un corso di tecniche editoriali che mi ha permesso di lavorare per un paio di anni in Rizzoli, a Milano.
Tornata a Bologna ho lavorato prima in uno studio letterario e poi ho avviato una mia attività imprenditoriale per la redazione di editoria scolastica e libri per bambini. Nel 2008 ho fondato anche una casa editrice unicamente dedicata a pubblicazioni per l’infanzia.
Nel 2011, però, sono stata folgorata dalle nuove tecnologie: proprio in quel periodo usciva la prima app italiana per bambini, Pinocchio, pubblicata da Elastico. Mi ci sono innamorata e ho fermamente deciso di mettere il mio know-how editoriale in quella che all’epoca era la nuova avventura del digitale.
Da allora ho sviluppato dieci app per bambini: le prime quattro erano progetti indipendenti, realizzati quindi con basso budget e, come si dice in gergo, con poco “polishing”.
Una di queste però, forse perché aveva una grafica particolate, realizzata in cartone e immagini fotografiche, attirò l’attenzione di un grosso publisher francese che mi chiese di rifarla da capo, questa volta a fronte anche di un finanziamento.
È stato un incontro fortunato: per qualche anno, infatti, ho sviluppato per lo stesso publisher un’altra serie di app e di interactive book basati proprio sui libri che qualche tempo prima avevo pubblicato tramite la mia casa editrice.
I cerchi si stavano chiudendo e lo stavano facendo proprio come mi ero immaginata.
Nel periodo di collaborazione con l’editore francese, ho sempre lavorato in team (cosa che amo molto) senza averne però mai costruito uno.
Il modello dell’industria videoludica è infatti estremamente elastico, in grado quindi di adattarsi di volta in volta al carico di lavoro e all’effort richiesto anche in termini di competenze.
Questo mi ha permesso quindi, a un certo punto, di potermi sganciare da questa attività senza grossi contraccolpi per nessuno, scegliendo di seguire la strada che al momento sembrava più adatta per me.
Per qualche anno sono quindi passata dall’altra parte della barricata e ho recensito, per conto di un grande player internazionale, app e videogiochi.
Terminata questa esperienza sono tornata a progettare app ed esperienze interattive, cosa che sto facendo anche attualmente, felice di essere tornata a lavorare in team.
La prima cosa da sapere è che non c’è uno schema prestabilito o una strada univoca da seguire. Il motivo sta forse nel fatto che l’idea di un’app o di un videogioco può potenzialmente venire a chiunque. Poi si tratta “unicamente” di capire se è realizzabile oppure no.
Alla base dell’eventuale realizzazione di un’idea ci vuole essenzialmente una cognizione economica: al netto del fatto che un videogioco o un’app hanno dei costi di progettazione, realizzazione e promozione importanti, è necessario saperli quantificare e prevedere nella loro interezza, nei minimi dettagli.
Fatti tre conti (si fa per dire), è necessario vestire l’idea di quello che nel nostro settore viene chiamato gameplay, ossia tutte quelle meccaniche che muovono il gioco, che lo fanno essere divertente e coinvolgente, che permettono ai giocatori di essere trasportati all’interno del gioco stesso, garantendo un’immersione quasi totale.
Semplificando moltissimo il processo, una volta messo a punto il gameplay, si passa alla scelta di grafica e musica che dipende sempre solo e soltanto dal target per cui app o videogiochi sono stati pensati.
Come per qualsiasi prodotto di consumo, infatti, la definizione della buyer persona (per usare un termine caro al marketing) sta alla base di qualsiasi decisione in merito al prodotto stesso.
Così, ogni segmento del target determina le specificità del gioco, la palette cromatica, il game play stesso, la musica, le interazioni e ogni più piccolo dettaglio.
La fase della progettazione e dello sviluppo si basa su un documento dettagliatissimo (il cosiddetto GDD, Game Design Document) in cui è contenuto tutto quello che compone ogni singola parte del gioco. Questo documento è la Bibbia di tutte le persone che collaborano alla buona riuscita del progetto.
Al contrario di quello che si possa pensare il GDD non è però propedeutico a un eventuale finanziamento da parte di un cliente che invece ha bisogno di vedere già qualcosa di realizzato, una demo avanzata, per decidere se investire nel gioco - o nell’app - oppure no.
Il Game Design Document diventa quindi estremamente rilevante solo a uso e consumo del team: nonostante questo il livello di dettaglio e di precisione del documento è millimetrico. Nulla deve sfuggire e tutto deve essere calcolato: una buona demo eventualmente finanziabile è tale perché alla base c’è un GDD a prova di bomba.
Amo molto il lavoro di squadra: l’ambiente videoludico, poi, è caratterizzato dalla presenza di professionisti molto giovani, umili, desiderosi di imparare, ma allo stesso tempo in grado di “contaminarti” positivamente con la loro visione, fresca, contemporanea, ancora priva di troppe sovrastrutture “professionali”.
Progettare e sviluppare un videogioco e un’app significa doversi allineare costantemente: durante la settimana i momenti di confronto sono tanti. Si tratta di doverosi allineamenti sul progetto, ma per noi sono anche spazi per quelli che chiamiamo “allineamenti di vita”.
Il nostro è un lavoro che richiede molto tempo, mesi sicuramente e delle volte anche anni. L’affiatamento tra i membri del team deve quindi essere non solo professionale, ma anche personale.
Bisogna ammettere che gli ultimi due anni hanno messo a dura prova il lavoro di squadra: è successo nel nostro settore, così come in molti altri.
Ho quindi sentito forte la necessità di dare qualcosa in più al mio team, cercando di tenere sempre alta la motivazione e di impedire che ognuno di noi si rinchiudesse nel suo guscio. Abbiamo così imparato a ricalibrare le esigenze e le energie del lavoro di squadra, trovando un nuovo modo per arrivare insieme (e felici!) al risultato finale.
Ho un rapporto molto singolare con le cose che faccio, vivo tanto nel qui e nell’ora.
Do tutta me stessa mentre ho la testa su un progetto e poi però nel momento in cui quel su cui ho lavorato – penso a un’app o a un videogioco – arriva sul mercato, beh… io sono con la testa già altrove.
Con il tempo ho capito di fare poca fatica a distaccarmi da quello che mi ha impegnato molto.
Per dirla in due parole, la soddisfazione che deriva dal mio lavoro sta proprio nel poterlo fare, nel migliore dei modi possibile.
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