The Great Resignation, un fenomeno di cui la stampa parla con fervore.
Dimissioni di massa, disamoramento dei giovani verso il lavoro, rivoluzione delle aziende: tutti temi che fanno tremare i polsi ad ogni HR Manager.
Capiamo meglio questo fenomeno per affrontarlo con calma e nel modo corretto.
The Great Resignation: così è chiamato il fenomeno di dimissioni di massa a cui si assiste da Aprile negli Stati Uniti e non solo.
Il termine è stato coniato da Anthony Klotz, psicologo e professore associato di Management alla May Business School della Texas A&M University, e si riferisce al clamoroso fenomeno riportato dal Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti: 4,3 milioni di americani hanno lasciato il lavoro nell’agosto 2021, tendenza che era già iniziata con picchi record ad aprile.
E l’ondata di dimissioni non sembra decrescere, anzi.
Nel mondo del lavoro è l’evento di maggiore portata a cui si è assistito negli ultimi decenni, ecco perché quando Klotz l’ha soprannominato “The Great Resignation” il termine è stato ritenuto particolarmente adatto ed è risuonato per tutti i canali media.
In una recente intervista, Anthony Klotz ha affermato che fosse prevedibile uno scenario del genere e che la pandemia ha accentuato una già crescente crisi esistenziale dei lavoratori.
In effetti ad agosto del 2020 l'economista di Glassdoor Daniel Zhao aveva dichiarato l'esistenza di 3,7 milioni di dimissioni in attesa di conferma, bloccate proprio dall’arrivo della pandemia. Ciò significa che, se non fosse stato per la pandemia, 3,7 milioni di persone in più avrebbero lasciato il lavoro già prima di agosto.
Questo potrebbe spiegare in parte l’enorme ondata di dimissioni: la pandemia, secondo Klotz ha quindi contribuito ad esasperare una situazione già di per sè critica.
Ma chi sono questi lavoratori che stanno consegnando le dimissioni? E da quali settori provengono principalmente?
Partiamo da un presupposto: la Great Resignation è un fenomeno molto complesso, che coinvolge tanti attori e per innumerevoli ragioni. Ma cerchiamo di fare chiarezza in mezzo a questa complessità.
Come si legge nel The New Yorker, gran parte delle dimissioni provengono dal “settore della conoscenza”: lavoratori ben istruiti che lasciano il lavoro non perché la pandemia abbia creato ostacoli al loro impiego ma, almeno in parte, perché li ha spinti a ripensare del tutto al ruolo del lavoro nelle loro vite. Molti di loro stanno considerando il ridimensionamento della carriera, riducendo volontariamente le ore di lavoro per enfatizzare altri aspetti della propria vita.
Secondo uno studio dell’Harvard Business Review, i tassi di dimissioni maggiori si sono registrati:
Destreggiarsi nel nuovo mondo del lavoro non è facile. Ecco un approfondimento su un tema chiave: le gerarchie organizzative:
Come abbiamo detto, la pandemia ha accentuato i malesseri già presenti in alcune aziende e in alcuni settori.
Improvvisamente, chiuse nelle loro case, le persone hanno riscoperto il valore della propria vita e della propria famiglia e si sono ritrovati a chiedersi: “L’azienda per cui lavoro mi ricambia conferendomi il giusto valore?”
E non sempre la risposta è stata positiva.
I collaboratori stanno lasciando i posti di lavoro anche in base a come le imprese si sono comportate nei loro confronti durante la pandemia.
Molte aziende che già prima supportavano poco le loro risorse hanno accentuato questa politica durante il periodo critico, mentre le imprese con una buona cultura aziendale in generale hanno cercato di mantenere sani i rapporti con i collaboratori.
L’aumentato carico di lavoro durante il lockdown, in alcuni settori, ha portato a un fenomeno chiave nell’analisi delle motivazioni: il bornout.
I livelli di stress sono diventati ingestibili per molti e hanno incrementato ulteriormente il desiderio di dare le dimissioni.
In definitiva, in un periodo in cui le persone si sono sentite più vulnerabili e hanno riscoperto la loro vita privata parallelamente sono aumentati anche gli incarichi lavorativi, con inevitabili esiti negativi.
Per i collaboratori oggi è indispensabile essere supportati nel work-life balance dalle proprie imprese, venire valorizzati e rispecchiarsi appieno nei valori aziendali.
Pena, le dimissioni di massa.
La Great Resignation non è un fenomeno solamente americano, anzi. Anche in Italia si sta assistendo ad un’ondata anomala di dimissioni.
Francesco Armillei, ricercatore della London School of Economics e di Tortuga, dichiara su lavoce.info che nelle Note trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie pubblicate dal ministero del Lavoro si possono ritrovare per l’Italia gli stessi segni della Great Resignation americana.
Nel secondo trimestre del 2021, tra aprile e giugno, in Italia si registrano quasi 500mila dimissioni su 2,5 milioni di contratti cessati in totale. Nello specifico gli abbandoni volontari del posto di lavoro sono 484mila, 292mila da parte di uomini e 191mila da parte di donne.
Analizzando più da vicino i dati si notano valori degni di attenzione.
L’incremento del numero di dimissioni rispetto al trimestre precedente risulta essere del 37% e addirittura dell’85% se confrontato con i dati relativi al secondo trimestre del 2020.
Il dato è ancora più sorprendente se si considera che il mercato del lavoro non è ancora tornato ai ritmi pre-pandemici e di conseguenza anche il numero totale di contratti cessati è più basso di quello precedente al 2020.
Il report registra inoltre che il quit rate, cioè il numero di dimissioni calcolata sul numero totale degli occupati in quel periodo, raggiunge il 2,12 % nel secondo trimestre del 2021: un numero notevolmente più alto rispetto all’1,59 del trimestre precedente e in generale un valore mai raggiunto negli anni precedenti.
Insomma, la portata del fenomeno sembra ricalcare decisamente quella riportata dal Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti.
A quanto si legge su Il Corriere della Sera, l’Italia è uscita dalla pandemia con 3 tratti che caratterizzano il mondo del lavoro:
Un fenomeno a cui si sta assistendo nel periodo post-pandemico in Italia è che meno donne rispetto agli uomini stanno riprendendo le proprie posizioni lavorative precedenti e i dati lo dimostrano.
La perdita del lavoro nel primo anno di pandemia è stata equa per il genere femminile e maschile, ma è la ripresa a presentare delle disparità. Da gennaio sono stati ripristinati 303 mila posti di lavoro per gli uomini e solo 128 mila per le donne.
La motivazione sembra essere la difficoltà a conciliare carriera e vita familiare: molte donne preferiscono rinunciare al lavoro per evitare costi eccessivi di aiuti familiari e domestici, che assorbono in gran parte lo stipendio guadagnato.
L’altro grande paradosso dell’ultimo periodo è questo: se da un lato ad oggi in Italia le persone occupate sono molte meno rispetto al periodo precedente la pandemia, dall’altro le aziende stanno riscontrando grande difficoltà nel riempire i posti vuoti.
I dati Istat mostrano che ad agosto 2021 gli impiegati erano circa mezzo milione in meno rispetto a prima del Covid, ma quasi la totalità dei settori del lavoro italiano stanno riscontrando i più alti livelli di difficoltà mai visti nel trovare nuovi collaboratori.
Il fenomeno sta colpendo particolarmente il settore dei servizi del turismo, quello di informazione e comunicazione e quello scientifico-tecnico.
Anche in Italia, esattamente come negli Stati Uniti, sembra quindi evidente una tendenza a voler dare maggiore spazio alla vita privata rispetto a quella lavorativa dopo i lunghi mesi di cambiamenti sociali ed economici di cui siamo stati protagonisti.
“Solo conoscendo il traguardo che ha in mente chi lascia, le aziende potranno mettersi nelle condizioni di trattenere le persone che oggi, quasi paradossalmente, sperimentano una maggiore libertà di scelta.”, commenta Il Sole24Ore. “Siamo ben lontani da una visione di “risorse” umane, intese come beni che si possono acquistare e mantenere perché non si deteriorino e garantiscano produttività: una larga parte della forza lavoro ha infatti reagito alla transizione pandemica interrogandosi sul senso della propria vita – come le crisi spingono a fare – e volendone riprendere il controllo.”
Quello che in particolare risulta evidente è che l’aumento di produttività delle aziende ha però portato dietro di sé un esaurimento progressivo dei suoi collaboratori, che oggi richiedono più libertà e migliore equilibrio tra vita e lavoro.
Un ruolo fondamentale in questo aumento della richiesta da parte delle aziende lo svolgono digitalizzazione e smartworking, se mal regolamentati e controllati.
La presenza del digitale sempre più prominente nelle relazioni lavorative da un lato ha consentito di portare avanti le attività anche durante la pandemia, dall’altro però in molti casi ha aumentato il tempo medio da dedicare al lavoro. Il tempo che le persone passano seguendo riunioni online è raddoppiato. Senza contare che oggi inviamo circa il doppio dei messaggi via chat a settimana.
E’ innegabile il fatto che le nuove modalità operative e di pensiero introdotte con la pandemia abbiano radicalmente modificato le esigenze lavorative, portando sia aspetti positivi che negativi.
Un report di Microsoft dichiara che il 70% dei lavoratori in tutto il mondo oggi richiede il lavoro flessibile e che le soluzioni di lavoro ibrido sono diventate indispensabili e irrinunciabili dopo la pandemia. I migliori talenti e le generazioni più giovani necessitano sempre più di lavoro liquido, orari flessibili e smartworking. Oltretutto il lavoro da remoto consente di trovare e acquisire talenti anche a distanza, aumentando notevolmente il bacino di ricerca.
Bisogna però prestare attenzione: il remote working e la mancanza di contatto in presenza stanno portando all’isolamento sociale e ad un progressivo allontanamento dai valori aziendali. Di questo sta risentendo soprattutto la generazione z, nativa digitale, ma è una condizione riscontrabile tra tutti i lavoratori, soprattutto dall’avvento della pandemia in poi.
Le risorse, lavorando da casa, stanno pian piano perdendo il senso di appartenenza alle loro imprese e questa è una delle ragioni principali per cui stiamo assistendo al fenomeno delle dimissioni di massa.
Lo smartworking ha comunque portato con sé un aspetto del tutto nuovo e positivo, su cui i leader dovranno puntare per valorizzare le loro risorse: una rinnovata autenticità sul posto di lavoro. Il fatto che ognuno si sia trovato a condividere inevitabilmente le proprie case e le proprie famiglie attraverso meeting e call con i colleghi durante il lockdown ha portato la relazione a un livello superiore di confidenza e autenticità.
E questa autenticità potrà essere una nuova leva per coinvolgere le proprie risorse all’interno di valori e iniziative aziendali, aumentando produttività e wellbeing. Una nuova visione in cui i valori nascono bottom up e vengono poi esaltati dall'azienda che li sa cogliere.
Dai nostri uffici di Berlino vediamo che anche in Germania forte è la tendenza a ricercare maggiore libertà lavorativa nell’epoca post pandemica. Come per il resto del mondo, anche qui è un’inclinazione, questa, già presente da tempo, perché l’avvento del digitale e la società iper-connessa e globalizzata in cui viviamo stanno portando le nuove generazioni ad esigenze lavorative molto diverse da quelle dei loro padri.
Come si legge sul Derstandard, “Anni prima della pandemia da Coronavirus, sondaggi e studi dimostravano già che le giovani generazioni sono restie a seguire le orme dei loro genitori e nonni, le cui vite sono dominate prima di tutto dal lavoro”.
La prospettiva di un’istruzione adeguata per poi ottenere un posto di lavoro sicuro e fisso fino alla pensione sembra essere ormai relegata al passato.
Lo stesso articolo riporta che almeno la metà dei membri delle giovani generazioni dichiara attualmente che non rimarranno nella loro azienda se "il lavoro flessibile non è concesso" .
Non solo, la tendenza nell’Europa occidentale sembra essere quella di richiedere settimane lavorative più brevi, di 30 e a volte anche 20 ore settimanali. Questa richiesta segue l’onda di esperimenti internazionali condotti con successo, come quello portato avanti in Islanda: i collaboratori a cui le ore lavorative sono state ridotte a 35, distribuite su solo 4 giorni settimanali, si sono rivelati più soddisfatti e produttivi.
Concetto interessante riportato dalla stampa tedesca è poi quello dell’esigenza di ridurre le ore di lavoro egualmente sia per le donne che per gli uomini perché “la cura dei figli è divisa ugualmente tra entrambi i partner” .
I collaboratori hanno sempre più bisogno di orari flessibili per conciliare lavoro e vita privata: la necessità è oggi più che mai quella di sentirsi valorizzati a tutto tondo dalla propria azienda.
Il concetto di realizzazione personale è sempre più presente e si riscontra tra le ragioni che stanno spingendo anche i giovani europei a lasciare il loro lavoro.
Il 20% dei Millennial in Europa occidentale ha lasciato il lavoro nell'ultimo anno, come dimostrano i dati di YPulse. E i motivi che li spingono a questa scelta sono numerosi: non li guida solo una spinta di tipo economico, ma anche la ricerca di un ambiente lavorativo sano.
Il 72% dei giovani dichiara di aver dato le dimissioni a causa del burnout e un lavoratore su due a causa dello stress e dell’ansia: con l’avvento del Coronavirus è aumentato il pericolo nel settore dei servizi, mentre i lavori d’ufficio sono stati resi eccessivamente stressanti dall'aumentata richiesta delle aziende verso le loro risorse che ha minato il work-life balance.
Questi motivi sono ancora più importanti per le donne, le cui carriere sono state particolarmente colpite dalla pandemia: il 50% delle giovani donne europee afferma che lascerebbe il lavoro a causa della sensazione di esaurimento.
Quello che si sta riscontrando in generale dopo la pandemia è il desiderio di ricercare un senso nel proprio lavoro: molte persone sono state indotte a rivalutare i propri piani e a decidere veramente cosa vogliono fare della propria vita.
“La ricerca del senso” è una tendenza molto comune soprattutto nelle nuove generazioni, : il 13% dei Millennials europei ha affermato di essersi dimesso nell’ultimo anno per mancanza di scopo e passione nel proprio lavoro.
Il motto dei Millennials e della Generazione Z è YOLO, "You only Live Once", e ciò su cui si focalizzano è la YOLO Economy, volta a vivere a pieno le proprie passioni e la propria inclinazione imprenditoriale, abbandonando il posto fisso alla ricerca di un senso più profondo nella propria professione.
“Il "valore" del lavoro non corre di pari passo con l'importanza soggettiva del suo senso. Ma quest'ultimo è sempre più importante.”, leggiamo su La Repubblica.
Una recente ricerca di LinkedIn ha evidenziato come anche nel Regno Unito un terzo dei giovani lavoratori abbia rivalutato ciò che desiderano in un lavoro a causa della pandemia e la metà di loro afferma di essere pronto a ridefinire le priorità della propria carriera.
Ma non è finita qui: il 40% dei giovani occupati prevede di lasciare il lavoro attuale entro l’anno prossimo e molti di loro cambierebbero se arrivasse una proposta migliore.
Ciò dimostra che "The Great Resignation" non è ancora terminata in Europa.
Di fronte a questa situazione si aprono molti nuovi scenari per i leader del futuro.
Le dinamiche che sono entrate nelle nostre vite lavorative e personali con la pandemia persisteranno e non possono essere ignorate.
I leader sono quindi chiamati a comprendere a fondo la situazione attuale e ad adattarsi alle nuove esigenze, se vogliono trattenere le risorse e attrarne di nuove.
In particolare è necessario:
Insomma, la parola d’ordine oggi sembra essere una: umanità. Portare una sempre maggiore componente umana all’interno delle proprie aziende potrebbe essere la chiave per fronteggiare la Great Resignation post-pandemica.
Arrivati a questo punto, lasciamo spazio alle parole del nostro CEO Daniele Bacchi e alla sua analisi della situazione attuale.
Sono dubbioso, anche perché il mercato italiano è molto diverso da quello USA, UK e Germania, sia come numero di opportunità per le nuove generazioni che iniziano a lavorare, sia come regolamentazione, che rende il nostro mercato molto più rigido.
In più abbiamo un mercato del lavoro profondamente diverso tra Nord e Sud e anche qui sarebbe molto interessante leggere i dati del Ministero sulle dimissioni spaccate per regione. Purtroppo anche questo dato non è pubblico ad oggi.
Il fenomeno a livello USA è innegabile. Tutti noi, addetti del settore, speriamo che la Great Resignation investa anche il mercato Europeo e Italiano, perché potrebbe essere l’interruttore del circolo virtuoso della produttività.
Le dimissioni delle persone più performanti svegliano di colpo le aziende e danno un senso di urgenza per affrontare temi passati come secondari per troppo tempo. Questo aumenta l’attenzione alle persone da parte delle imprese e quindi alimenta una sana competitività per trattenere le persone con maggior talento. Gli investimenti in retention innalzano il livello di benessere nella vita professionale dei lavoratori e sfociano, da ultimo, in maggiore motivazione sul lavoro e di aumento di produttività.”
Destreggiarsi nel nuovo mondo del lavoro non è facile. Ecco un approfondimento su un tema chiave: le gerarchie organizzative: