“Il coach è una figura che può sostenere le persone trasversalmente, da tanti punti di vista”: a dircelo è stata Tiziana Boldrini, di mestiere mental coach, ma, lo scoprirai leggendo l’intervista che segue, anche molto di più.
Parlare con Tiziana è stato illuminante: ci ha permesso di capire cosa significhi comprendere davvero l’altro, limiti e valori inclusi. Ci ha portato all’interno di un mondo fatto di ascolto, di opportunità e di sguardi alternativi che ha l’unica regola di non vivere la storia degli altri, ma di impegnarsi a far in modo che siano gli altri a viversi nel migliore dei modi possibile.
Nonostante attualmente mi occupi di molti aspetti di quel che significa “prendersi cura dell’altro”, continuo a credere fortemente in quello che faccio da più di 20 anni, ossia nel supporto e nell’educazione ai più fragili e in particolare agli adolescenti.
Collaboro infatti da un ventennio con la Cooperativa La Strada che accompagna quotidianamente le persone ai margini in un percorso di riabilitazione e sostegno.
Nasco lì, professionalmente, ed è proprio da quel che lì ho imparato che con il tempo ho fatto sì che potessero aprirmisi anche altre opportunità.
Qualche anno fa ho infatti sentito il bisogno di occuparmi anche di aspetti positivi dell’esistenza umana: il lavoro con i più fragili rimane un punto fisso della mia vita, ma iniziavo a sentirmi un po’ schiacciata dal dolore e dal sacrificio.
A questo si è unito un forte desiderio di fare qualcosa in più per me: la mia casa professionale è sempre stata la Cooperativa. Lì mi sento bene e al sicuro, ma come ogni persona che cresce ho avvertito la necessità di fare un passo fuori dalla porta, vedere quale poteva essere il mondo là fuori e misurarmici con l’esperienza professionale acquisita.
Così ho fatto un’autovalutazione delle mie competenze, ho analizzato quel che avrei potuto fare e compreso anche ciò a cui non mi sarei voluta disancorare.
Ho quindi mescolato gli ingredienti: c’erano adolescenza, dialogo, difficoltà, comunicazione, individuazione di strategie operative, capacità di trovare soluzioni concrete, ma anche di scavare nel profondo. C’erano, insomma, tutti i presupposti giusti per iniziare un percorso come mental coach.
Inoltre, il raggiungimento degli obiettivi, tipico del mental coaching, è un meccanismo che noi educatori usiamo da sempre anche in situazioni estremamente più complesse.
Quello che ho fatto è stato quindi applicare una dinamica che mi era molto famigliare a situazioni diverse rispetto a quelle della mia routine professionale: attualmente seguo soprattutto atleti giovani, ma sto iniziando a occuparmi anche di sportivi nell’età adulta.
A tutto questo affianco da qualche tempo anche l’attività di mediatrice famigliare.
Per farla breve possiamo dire che là dove ci sono dei problemi mi inserisco io per aiutare a risolverli, per portare le persone dal punto in cui stanno (e si sentono in qualche modo a disagio) in un altrove dove possano invece sentirsi meglio.
L’adolescenza è per sua definizione un’età evolutiva: i ragazzi sono spesso estremamente confusi riguardo il percorso che stanno facendo.
Non è vero solo nel caso di situazioni difficili o particolarmente critiche, ma si tratta di un sentimento condiviso, chi più chi meno, indipendentemente dal contesto in cui i ragazzi si trovano.
Quello dell’adolescenza è tipicamente un momento in cui il rapporto con la famiglia tende a cedere sotto dinamiche che fino a quel momento erano escluse dalla quotidianità dei ragazzi: se un tempo la genitorialità veniva basata sull’autorevolezza sin dall’infanzia, ora lo scontro generazionale arriva sempre più tardi - nel periodo adolescenziale appunto - proprio perché sia da parte dei genitori, sia da parte dei figli c’è un mancato riconoscimento dell’altro che da un lato diventa improvvisamente autoritario e dall’altro inspiegabilmente respingente.
È questo il momento in cui è necessario esserci, tenere le redini non in modo autoritario, ma autorevole. Sembrano grandi i ragazzi adolescenti, ma lo sono solo relativamente.
Ecco che in questo contesto mi inserisco io: amo molto far ragionare i ragazzi su quel che stanno vivendo e li aiuto a porsi degli obiettivi e quindi a raggiungerli. In due parole: li metto al centro.
In questo senso lavoro moltissimo come mental coach sportiva nei settori giovanili: se fino a pochissimo tempo fa si trascurava totalmente l’importanza della creazione di una mentalità sportiva sin dalla gioventù, ora, piano piano, si inizia a comprendere quanto sia fondamentale, sia dal punto di vista sportivo tout court, sia da quello prettamente umano.
Avere una mentalità sportiva significa, per me, saper stare al mondo.
Mi spiego meglio: chiunque abbia mai praticato con costanza uno sport sa che la “vita dentro la palestra” (che si tratti di uno sport individuale o di squadra) è un validissimo sostegno alla “vita fuori dalla palestra”.
Lo sport insegna ad affrontare molte sfumature dell’esistenza umana: dalla necessità di trovare una soluzione immediata, alla possibilità di contare sugli altri (soprattutto quando si pratica uno sport di squadra), dall’avere a che fare con tanta diversità al fare i conti con la fatica, ma soprattutto allo stare sulla fatica.
Lo sport ti fa infatti capire che non ci sei solo tu, che l’impegno che ti viene richiesto non determina solo il tuo successo (o insuccesso), ma anche quello degli altri, di una squadra o banalmente delle persone che ti supportano nel tuo percorso atletico. La “vita dentro la palestra” ti fa capire che al centro ci sei tu, ma che non sei solo. Al centro si è in tanti.
Aiutare i ragazzi a costruire una mentalità sportiva significa quindi aiutarli ad affrontare le fatiche quotidiane con motivazione, a comprendere i limiti della vita di tutti i giorni e a saperli superare sfruttando ciò che si sa fare bene.
Le proprie competenze, ciò in cui si è bravi insomma, sono un trampolino per andare sempre più avanti. E i ragazzi in questo sono imbattibili: si rendono perfettamente conto delle proprie caratteristiche positive e dei propri limiti e sono in grado di utilizzare le prime a vantaggio dei secondi.
No, non del tutto perlomeno. La mentalità che si costruisce per chi pratica sport di squadra è molto simile a quella di chi uno sport lo fa individualmente.
Semplicemente lo sport di squadra camuffa meglio le responsabilità individuali, un po’ come succede in azienda quando il lavoro è di team. In entrambi i casi spesso non emergono subito errori o meriti delle singole persone: il risultato finale viene valutato nella sua complessità.
È ovvio però che i componenti della squadra sappiano esattamente a chi attribuire meriti o demeriti e sono i primi, soprattutto nella “vita dentro la palestra”, a presentare il conto quando a dover essere discusso o risolto è un errore individuale.
La squadra fa scudo all’esterno, ma diventa, internamente, anche il luogo dove far emergere meglio delle debolezze da risolvere.
Un esempio su tutti: l’ansia da prestazione è diffusissima anche tra gli atleti di sport di squadra. La differenza con le attività individuali è che la presenza degli altri aiuta nell’immediato a superare le difficoltà che comunque dovranno poi essere indagate nel profondo affinché episodi del genere non si manifestino più o comunque possano essere gestiti sapientemente.
Iniziamo col dire che l’ansia da prestazione non deriva dagli altri (pensiamo per esempio quando è legata al timore del giudizio), ma è insita nella persona che la prova.
Varia molto a seconda delle esperienze avute nel corso della vita, ma nasce principalmente dai fallimenti che non si sono mai potuti vedere – spesso per mancanza di supporto – in modo accrescitivo.
Il mental coach, quindi, soprattutto quando lavora con sportivi in età adolescenziale, riesce a far elaborare eventuali fallimenti affinché diventino opportunità o comunque delle basi per un miglioramento, pratico e mentale.
Non esiste essere umano privo di paura, di ansie e di timore dell’altro. C’è solo differenza nel come si è imparato a gestire questo timore o di come naturalmente lo si affronta. Ognuno di noi mette un pezzettino della sua storia in conquiste e limiti: uno dei miei compiti è saper leggere la storia degli altri e far in modo che quei “pezzettini” in più non siano mai di ostacolo o perlomeno non lo siano nel lungo periodo.
Quando le persone chiedono in modo esplicito il mio supporto, il problema più grande è sicuramente quello di non sapere quale sia la criticità da risolvere.
Sono soprattutto gli uomini, a differenza delle donne, a fare molta fatica a esternare la difficoltà che sentono di vivere: non si tratta di pudore o di supponenza, quanto invece della mancanza di capacità nel capire che quel che sentono è solo uno dei sintomi di qualcosa di più profondo.
Faccio un esempio banalissimo: se uno sportivo mi dice di soffrire di ipersudorazione alle mani (è frequentissimo), cosa che compromette la sua performance atletica, e mi chiede una soluzione, so per certo che il problema da risolvere non è quello della sudorazione.
Da raccontare sembra quasi banale, ma vi assicuro che da vivere lo è meno: la maggior parte delle persone arriva infatti con la percezione di avere un problema che è però lo specchietto di quello reale. E la maggior parte delle persone è però convinta che la loro vera difficoltà sia quella della quale hanno effettiva percezione.
È quindi necessaria una buona dose di pazienza e di apertura mentale per andare a scavare e capire cosa fa emergere quello specifico sintomo.
Il mio compito non è quello di mettere a tacere un campanello di allarme, ma di disinnescare il meccanismo che potrebbe farlo suonare.
Inoltre, i problemi che emergono sono sempre legati a un’emozione e lavorare sulle emozioni significa doverle accantonare per concentrarsi sull’origine di quel sentimento.
Spiegarlo è complesso proprio perché non si tratta di una passeggiata: per questo dico sempre che prima si inizia (proprio in termini di età anagrafica), prima si arriva (meglio) al risultato.
La capacità di ascolto, sicuramente.
Ma anche saper risolvere i problemi con ottimismo: se dovessimo ridurlo a una competenza direi “problem solving”, ma essendo coinvolta anche l’emotività delle persone e soprattutto la loro stessa esistenza, credo sia doveroso avere un atteggiamento positivo e ottimista, appunto, nei confronti della vita e delle soluzioni che si possono trovare quotidianamente.
È poi necessario sapersi mettere nei panni dell’altro. Potremmo chiamarla empatia anche se qui si tratta di dover convivere con i problemi degli altri, farsi coinvolgere, ma non schiacciare.
Con il tempo e con l’esperienza ho imparato a non vivere le storie degli altri come se fossero le mie: il rischio è infatti quello di mettere se stessi al centro quando invece il focus deve essere sempre sulle persone che si seguono, per correttezza innanzitutto e per lavorare bene, ovviamente.
Ritengo che nei prossimi anni quella del mental coach diventerà una professione “normale”, consueta. Un po’ come è successo al preparatore atletico, all’osteopata o al nutrizionista, per esempio, che un tempo non venivano considerati professionisti canonici, ma dei quali invece oggi non si riesce più a fare a meno.
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