“La paura di parlare in pubblico è seconda solo a quella di morire”.
Ce lo ha detto Betty Senatore, speaker di Radio Capital, insegnante di dizione e coach di public speaking che abbiamo intervistato per farci raccontare qualcosa di più su quest’ultimo aspetto della sua intensa e appassionante vita professionale.
Se vi sembra che abbia esagerato, provate per un attimo a chiudere gli occhi e immaginarvi su un palco, quello di un teatro, di un concerto o di una piazza: davanti a voi ci sono centinaia di persone (migliaia se proprio volete fare le cose in grande).
Se c’è qualche volto amico, da così lontano non riuscite a vederlo: siete quindi davanti a una massa di sconosciuti ai quali dovete raccontare qualcosa, catturare la loro attenzione e, perché no, compiacere.
Se un po’ l’ansia non vi è venuta e lo stomaco non vi si è chiuso le cose sono due: o non avete immaginato abbastanza bene, o siete dei veri e propri animali da palcoscenico ai quali, in ogni caso, un corso di public speaking potrebbe fare comodo.
Sono una speaker radiofonica dal 1994 e una coach di public speaking dal 2012. Fare radio mi ha sempre spinto a migliorare alcuni miei aspetti comunicativi: come usare la voce, per esempio, ma anche come impormi davanti a un pubblico e quindi come migliorare la dizione e specifici aspetti della recitazione.
Non ho mai smesso di essere curiosa di capire fino a dove sarei potuta arrivare, aggiungendo, anno dopo anno, un piccolo tassello alle mie competenze: sono una di quelle che si è formata “sempre da sempre”, molto prima ancora che la formazione professionale fosse trendy come lo è ora ☺.
Sono quindi diventata coach di public speaking prima di tutto perché ho studiato, ma anche grazie alle relazioni che nel tempo ho costruito.
C’è un aneddoto che mi piace considerare il battesimo di questa mia attività: all’epoca la mia agente, che mi procurava provini per pubblicità e produzioni televisive, notò che un giorno, proprio in attesa di essere “provinata”, aiutai una ragazza a imparare la parte che avremmo dovuto recitare.
Fu molto colpita dalla mia capacità di ascoltarla e darle soluzioni pratiche per superare le difficoltà e quindi mi propose di intraprendere una carriera parallela, quella di coach, aiutando, per iniziare, i ragazzi e le ragazze più giovani che rappresentava tramite la sua agenzia.
Ho accettato, più per curiosità che per spirito “imprenditoriale”: all’inizio mi sono concentrata sulle lezioni di dizione, ma poi piano piano, visto che da una parte ci prendevo gusto e che dall’altra miglioravo sempre più (proprio grazie a una formazione continua), mi sono focalizzata anche sul public speaking.
Insomma, come si dice, da cosa nasce cosa (ma quasi mai per caso).
Se vi dico che io lavoro sempre, mi credete? E non perché mi trovi tutto il giorno e tutti i giorni in aula, ma perché molte delle cose che mi circondano nella quotidianità diventano uno spunto per le mie sessioni di formazione.
Ho le “antenne sempre alzate”: un discorso di un bravo oratore (o al contrario di uno meno capace) che intercetto sul web o in TV può diventare un caso studio da mostrare ai miei “studenti”. Ma anche un cartello che trovo per strada, per esempio, può darmi il fianco per affrontare in aula l’importanza di una comunicazione chiara ed efficace affinché chi parla e chi ascolta condividano davvero la stessa lunghezza d’onda.
Perché funziona più o meno così: chi frequenta un corso di public speaking vuole ovviamente imparare a parlare in pubblico, ma soprattutto non vuole più avere paura e quindi desidera acquisire una padronanza comunicativa “whatever happens”.
Perché ciò accada è innanzitutto necessario che si conoscano le basi della comunicazione.
Organizzo quindi una presentazione per spiegare la differenza tra comunicazione verbale (ah le parole! Sceglierle bene è fondamentale!), para-verbale (come usare voce, come cambiare tonalità per non essere monotoni, gestire il ritmo e la velocità) e non verbale (espressioni del viso e del corpo affinché possano essere di supporto agli altri due aspetti della comunicazione).
È un po’ come l’artigiano che prima di mettersi all’opera deve sapere come funzionano gli strumenti che ha a sua disposizione.
Ogni aula ovviamente è a sé: se la base teorica è sempre la stessa, cambiano però gli esercizi da fare così come gli esempi utili per capire meglio ciò di cui si sta parlando.
La preparazione è quindi fondamentale alla buona riuscita della lezione che si articola poi in tempi diversi a seconda degli interlocutori e dei loro obiettivi.
Sono molto spesso studenti universitari e manager.
I primi cercano un supporto per vincere l’ansia da esame che, al contrario di quello che si possa pensare, la maggior parte delle volte non è dettata da una scarsa preparazione, ma dal timore di parlare davanti a un pubblico – anche ristretto.
È paura di non essere in grado di trasmettere correttamente quello che si sa, è paura di essere giudicati per quel che si dice e come lo si dice. È paura e come tutte le paure va ascoltata, divisa in pezzettini e affrontata anche grazie a piccoli escamotage.
Vincere la paura non significa non averne più, ma semplicemente essere in grado di gestirla e far sì che l’ansia non influisca negativamente su uno speech o, appunto nel caso degli studenti, sulla buona riuscita di un esame.
I manager, invece, vengono da me o perché è l’azienda che ce li manda o, al contrario, perché hanno bisogno di creare un buon discorso per una particolare occasione.
Nel primo caso capita che non siano felicissimi di essere dove si trovano: è in queste situazioni che mi viene richiesto di essere molto severa. Il senso è: sto partecipando a un corso perché “costretto” e allora facciamo in modo che mi si metta davvero sotto pressione affinché qualche progresso ci sia davvero. Nonostante trovi che la severità in un’aula di adulti sia superflua, comprendo questa necessità e cerco sempre di soddisfarla (anche se sono di animo buono!).
Nel secondo caso, invece, quando il manager viene di sua sponte, si tratta solo di fare un fine tuning delle sue capacità. Più che una lezione è quindi semplicemente un confronto quasi alla pari: è comunque molto stimolante.
Ho però anche moltissime clienti donne, professioniste di vario genere che sentono il bisogno di migliorarsi.
Le criticità corrispondono molto spesso alle gratificazioni. Vi spiego meglio: le donne, soprattutto, partecipano a un corso di public speaking perché non si sentono all’altezza di parlare in pubblico. Pensano (ne sono convinte!) di non esserne proprio capaci.
La verità è che, molto spesso, soffrono semplicemente della sindrome dell’impostore, ossia fanno fatica a interiorizzare certe loro capacità e i successi ottenuti.
In questi casi, ma anche quando davanti a me ho per esempio manager navigati che parlano in pubblico da una vita, il miglioramento possibile è percepibile solo in maniera infinitesimale. Credetemi se vi dico che è più difficile far muovere qualcuno di un solo millimetro rispetto a quanto non lo sia spostarsi di, che ne so, 20 centimetri.
Ma è quando questo piccolo, microscopico passo in avanti diventa realtà che si raccoglie la soddisfazione più grande: la ascolto nelle parole, la vedo nei gesti, la scorgo nelle espressioni di chi l’ha fatto e la ritrovo in me stessa che sono riuscita a saltare l’asticella senza quasi sfiorarla.
Di altro tenore sono le sfide di chi ha più strada da fare: il mio lavoro, in quel caso, è un vero e proprio accompagnamento. Inizio con le cose più semplici e poi alzo il tiro. Di quanto lo decido a seconda di chi ho davanti: c’è chi fa degli scatti improvvisi per poi arrestarsi e ripartire e chi invece ha l’atteggiamento del maratoneta che, testa bassa e gambe in spalla, procede fino alla meta a ritmo regolare. È doveroso quindi che sappia esattamente con chi ho a che fare per calibrarmi di conseguenza.
In un momento storico in cui siamo tutti anchorman o anchorwoman di noi stessi, ritengo che noi coach di public speaking avremo sempre più da fare.
A parlare in pubblico non sono più infatti solo le figure apicali d’azienda o chi per lavoro si trova su un palco (come le persone del mondo dello spettacolo, per esempio), ma potenzialmente chiunque produca dei contenuti social usando il proprio volto e la propria voce.
Penso agli influencer, ma anche a chi in generale usa il digitale per promuoversi, così come ai professionisti che causa pandemia ora fanno anche formazione o ancora alle persone che lavorano in azienda e che prestano volto e voce ad attività di comunicazione della loro organizzazione.
Nella maggior parte dei casi la preparazione al public speaking è nulla: alcuni possono fare affidamento su doti naturali (che non sono mai da trascurare), ma altri devono fare i conti con l’imbarazzo di non sapere da dove iniziare, arrabattandosi meglio che possono.
La tendenza a volersi migliorare è quindi palpabile: le richieste aumentano ed è proprio per questo che da qualche tempo alla lista dei miei corsi ho aggiunto anche quello del “public speaking per il web”.
Esprimersi in pubblico non significa infatti solo avere fisicamente qualcuno davanti e io sono la prima a provarlo sulla mia pelle. In radio, tutti i giorni, sembra che parli a un microfono, ma in realtà mi rivolgo a migliaia di persone che è vero, non vedo, ma che immagino sempre davanti a me.
Le richieste per questa tipologia di corso arrivano dai singoli professionisti, ma anche dalle aziende che si rendono conto di dover mettere le loro persone in condizione di fare quanto meglio possibile quella che è diventata a tutti gli effetti una nuova parte del loro lavoro.
Aggiungo anche che finché a scuola i ragazzi non impareranno a parlare (negli USA hanno quella meravigliosa pratica del “debate” che in Italia risulta essere praticamente ancora assente) arriveranno nel mondo del lavoro senza saperlo fare e, quindi, con la necessità di recuperare il tempo perduto.
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