Perché è importante curare la reputazione delle figure chiave di un’azienda (e come farlo).
L'86% dei lavoratori pensa che i CEO che difendono pubblicamente i diritti sociali sui social media siano visti come grandi leader.
Più del 75% afferma di volere che i CEO assumano la guida del cambiamento invece di aspettarlo dal Governo del proprio Paese.
Secondi i dati presentati nell’ultima edizione dell’Edelman Trust Barometer, i CEO delle aziende oggi sono considerati opinion leader capaci di direzionare le opinioni delle persone e guidare la lotta per il cambiamento.
Del resto, è quello che ci si aspetta ormai dalle aziende stesse: svolgere un ruolo attivo nel sociale prendendo posizione rispetto alle questioni più urgenti del nostro tempo e mettendo in campo soluzioni concrete.
Un pensiero riassunto efficacemente nel titolo di una delle opere più recenti di Philip Kotler, padre del marketing moderno: “Brand activism - dal purpose all’azione”. Il saggio spiega chiaramente come le dinamiche della nuova società abbiano mutato anche il modo di lavorare, e come le aziende debbano rispondere.
Se dunque il ruolo dei CEO, ma potremmo dire più in generale delle figure chiave delle aziende tra cui certamente sta l'HR Manager, è anche quello di prendere posizione su temi specifici e raccontare la propria visione della società e del lavoro, ecco che possiamo capire l’importanza di impostare una strategia di personal branding efficace.
“Qualsiasi sia la mia estrazione sociale o età, io sono di fatto il Presidente, Amministratore Delegato e responsabile Marketing dell’azienda chiamata ‘Io Spa’. La mia reputazione e la mia credibilità si definiscono tramite la qualità del mio lavoro attuale e passato e determinano la qualità del mio lavoro futuro.”
Nel 1997 lo scrittore statunitense Tom Peters pubblica un articolo dal titolo “The brand called You” in cui definisce l’arte di costruire e raccontare il proprio brand, ossia la “marca personale”: questo breve testo sarebbe diventato negli anni a seguire il vero e proprio manifesto del personal branding, termine che viene citato per la prima volta (o, almeno, una delle prime volte) proprio da Peters.
Il brand dunque non riguarda solo le imprese ma anche le persone, indipendentemente da chi siano e da che tipo di lavoro svolgano. E il personal branding è definito dai concetti già espressi da Peters più di venti anni fa: si tratta del complesso di strategie messe in atto per promuovere se stessi, le proprie competenze ed esperienze, la propria carriera e visione del mondo, alla stregua appunto di un brand.
Questa è l’attività richiesta oggi ai CEO e alle figure chiave delle imprese di cui parla Kotler. In un mondo in cui siamo circondati da brand, influencer e fonti di informazione, saper comunicare la propria immagine in modo distintivo e convincente diventa essenziale per posizionarsi con efficacia e autorevolezza sui temi di proprio interesse. È così che i manager d’azienda possono assumere un ruolo centrale anche nel dibattito su questioni sociali e rafforzare la visibilità e la reputazione della propria compagnia.
Così facendo appare chiaro che avviare un percorso di personal branding delle figure apicali di un’organizzazione, nel momento in cui ne valorizza l’immagine e l’impegno su temi importanti per la società, abbia anche un valore a livello di employer branding, il cui obiettivo è appunto quello di promuovere un’immagine aziendale positiva ed efficace, così da renderla accattivante agli occhi dei collaboratori attuali e futuri, ma anche dei clienti stessi.
Per avere una guida che definisca gli elementi base di questa attività, ci viene ancora in soccorso Tom Peters, che in “The brand called You” definisce i tre pilastri fondamentali del personal branding.
Nell'evoluzione che il ruolo dell'HR sta vivendo, il supporto che può dare insieme al Marketing nello sviluppo di strategie di personal branding per i manager è ormai importantissimo.
Abbiamo già parlato diverse volte di come Marketing e HR siano ottimi alleati, e questo ambito si va ad aggiungere alla lista.
Ti occupi di Risorse Umane e ti capita di soffrire di solitudine?
La “promozione di se stessi” può avvalersi di diversi strumenti, a partire dal modo in cui ci poniamo nelle relazioni interpersonali fino all’immagine che diamo di noi stessi in occasioni di lavoro in team e scambio di idee. Ciò che più conta è avere sempre ben chiaro quale sia l’obiettivo che vogliamo raggiungere, il nostro scopo ma anche la nostra visione delle cose e i temi che vogliamo trattare: in questo modo potremo essere coerenti nella nostra attività di personal branding e fornire un’immagine precisa e definita della nostra persona.
Se dunque è vero che il personal branding inizia dal primo momento in cui ci interfacciamo con il prossimo, è altrettanto vero che le nostre possibilità di avere successo in questa attività trovano nuovi orizzonti nel momento in cui ci spostiamo sui social media.
Le piattaforme social sono il luogo ideale in cui raccontarsi, posizionarsi sui temi che ci sono più cari ed entrare in contatto con nuove persone: sono uno spazio di conversazione e confronto, con potenzialità interessanti soprattutto per CEO e manager che vogliono affermare la propria reputazione e ampliare l’audience, e per questo è necessario curare l’attività sulle varie piattaforme in modo strategico mediante alcuni precisi passaggi:
Stabiliti i punti fondamentali dell’attività di personal branding, un elemento che può apparire banale ma che viene spesso sottovalutato è l’importanza della persona: anche coloro che ricoprono ruoli apicali all’interno di un’organizzazione devono essere capaci di comunicare in modo autentico, proporre un punto di vista personale sui temi affrontati e usare la propria voce, vera e genuina, sia che si condividano contenuti personali sia che si tratti di aggiornamenti o iniziative della propria azienda.
Marketing Arena SpA è un’agenzia di consulenza di Digital Marketing che sviluppa progetti di accompagnamento e innovazione digitale per PMI e grandi aziende, con particolare focus sul B2B. Giorgio Soffiato ha fondato Marketing Arena e continua contestualmente la sua attività di docenza per master (Cuoa, MADE - HFarm, SDA Bocconi) ed università. È membro del collegio didattico della Ca’ Foscari Challenge School per il modulo di web marketing del Master in cultura del cibo e del vino. È in vendita online e in tutte le librerie il suo libro "Marketing Agenda. Strategie e strumenti
per il manager dell'era digitale".
Il personal branding è un tema di cui si continua a discutere, sembra nato nell'era dei social media, ma in realtà risale alla fine del millennio scorso. Giorgio, come commenteresti il fatto che nell'indagine dell’Edelman Trust Barometer il 75% degli intervistati afferma di volere che "i CEO assumano la guida del cambiamento invece di aspettare che lo imponga il Governo del proprio Paese"?
Io credo che il personal branding sia un’attività che dipende molto più dal personal che dal branding. Quello che a mio parere non si comprende è che le persone possono avere attitudine a raccontare quello che fanno, ma sicuramente serve anche competenza. Si narra una competenza, non si narra e basta.
Ecco perché qualcuno di mestiere fa il manager o l’amministratore delegato e viene visto come personaggio elettivo in carica nella potenziale guida del paese. A mio parere oggi è importante raccontare quello che si fa, e ancora più importante è mettere le persone giuste al posto giusto.
Quanto pensi che le idee, riflessioni e ragionamenti di CEO e manager possano realmente impattare (sia positivamente che negativamente) l'operato della loro azienda?
Quello che viene sottovalutato sono i destinatari della comunicazione perché sicuramente le persone come amministratori delegati e C-level di alto livello hanno poco tempo per comunicare con i propri dipendenti e per questo creare dei canali di comunicazione più o meno intimi (dal gruppo WhatsApp ad un canale LinkedIn) è sicuramente una cosa interessante.
Ci tengo a sottolineare che comunque bisogna avere fatto i compiti per casa per spingere sul personal branding, non c’è nulla di peggio di una dimensione narrativa non sincera quando poi quello che direbbero di te i tuoi dipendenti è che hanno delle mensilità di stipendio arretrate.
Bisogna riuscire a raccontare bene le persone, sia all’interno che all’esterno. Si parla pur sempre di una voce autorevole, importante, e per questo motivo non si può sbagliare.
La comunicazione deve esser più reale e onesta possibile. Un errore dentro una comunicazione onesta può prevedere delle scuse oneste, un errore dentro una comunicazione in qualche modo figlia di artefatti o progettata male non regge alla prova delle scuse. Dire la verità funziona sempre.
Il personal branding dà sicuramente nuova importanza al concetto di persone come elemento qualificante dell'azienda. Quanto pensi sia importante per i dipendenti iniziare a costruire un brand attorno a se stessi?
Dipende. Oggi ognuno di noi ha un brand, anche se non mi piace molto come espressione. Rubo ad un grandissimo professionista una delle affermazioni che mi hanno colpito di più: Enrico Marchetto dice che “tutti noi abbiamo un pubblico”. Ed è proprio questo il tema: come noi vogliamo gestire la relazione con il nostro pubblico (a partire da chiunque ti segua su Instagram).
Siamo tutti focalizzati sull’ampiezza, ma chi se ne frega di quanti followers ho. Il punto chiave è decidere come si ha voglia di relazionarsi con il proprio pubblico. Rispetto ogni tipo di scelta, ci sono persone che non hanno l’attitudine per comunicare, chi ha fastidio a dover gestire una situazione di branding personale. Ognuno oggi ha la possibilità di comunicare in maniera diversa. Chi opera in certi mestieri, come i servizi, può giovare da questa attività. Sto pensando anche a persone che stanno lungo la filiera. Pensate ai consulenti finanziari piuttosto che agli avvocati.
Il punto chiave è quando tu ti presenti con un capitale narrativo, un capitale di relazione con un'audience che puoi ingaggiare: sicuramente hai un valore diverso.
Io mi trovo spesso impegnato come docente. Ieri una persona mi ha detto “mi sono iscritto a questo corso perché c’eri tu” e questo è il mio +1.
Fare questo mestiere è un mestiere: richiede la voglia e qualche ora al giorno, e ognuno deve chiedersi se le ha.
Riusciresti ad identificare poche semplici regole da seguire?
Io sono sempre contrario alle formule magiche anche perché se avessi individuato l’algoritmo della felicità probabilmente sarei da un’altra parte. C’è una cosa che mi sento di dire. La regola content-delivery-KPI probabilmente può funzionare. Si parla di un contenuto di qualità e di distribuirlo dove le persone si sentono di volerlo distribuire (WhatsApp, un blog, LinkedIn, una newsletter). Si tratta di misurare poi quello che succede perché alla fin fine ognuno è figlio, non schiavo, dei numeri che ha. Quindi sono questi degli indicatori di cui mi sento abbastanza conscio.
Ti occupi di Risorse Umane e ti capita di soffrire di solitudine?