Se lavori nelle Risorse Umane e non hai mai pensato di considerarti un influencer (nell’accezione più tradizionale del termine, intendendo colui o colei che influenza le decisioni altrui), con questo articolo abbiamo tutta l’intenzione di farti ricredere.
Ciò di cui stiamo per parlare è un tema molto caldo, una situazione che ha bisogno di una modalità di approccio e risoluzione ragionata e che ha necessità di essere guidata e influenzata (eccoci, appunto) da chi ha la possibilità di una visione a tutto tondo e a sua disposizione le competenze utili per muoversi virtuosamente.
Il terreno è insidioso, scivoloso e, decisamente, non il migliore sul quale potessimo pensare di camminare, muoverci e, addirittura, correre: “È la crisi, bellezza!” (tanto per parafrasare una celebre battuta di Humphrey Bogart).
La crisi comportata dalla pandemia è stata foriera tanto di negatività quanto di spiragli di luce. Là fuori c’è ora una schiera di (giovani e meno giovani) lavoratori che, oltre ad aver rimesso in ordine le proprie priorità, ha avuto modo di analizzare con attenzione ciò che potenzialmente si potrebbe avere.
Per esempio un’azienda che ascolta le esigenze delle sue persone, sia in termini prettamente psicologici sia meramente logistici.
Un’azienda che, sulla base del risultato di questo ascolto, riesce a fare un’analisi puntuale di quel che ha funzionato “fino a qui” e di come ottimizzare ciò che non ha girato al massimo, senza che a pagarne le conseguenze sia solo il benessere delle sue persone o comunque la percezione che ne hanno.
Ogni HR ormai conosce bene queste dinamiche; e quindi il tuo lavoro quotidiano diventa sempre più strategico e di influenza, proprio come si diceva qualche paragrafo più in su:
Quel che non ti avevamo detto all’inizio dell’articolo è che il tuo compito, ora, è forse più oneroso in termini di responsabilità di quanto non lo sia stato negli ultimi 24 mesi.
Mantenere il timone in tempesta richiede uno sforzo colossale, è vero, ma trovare la rotta giusta a quiete raggiunta è un impegno che implica costanza, lucidità e un po’ di savoir faire.
Rimboccati le maniche: lo avrai capito, siamo solo all’inizio della storia che determinerà il futuro dell’azienda per la quale lavori e, in senso più ampio, anche del mondo del lavoro.
Per ragionare con te di cosa comporta questo tuo rinnovato ruolo da influencer partiamo da principio, facciamo un recap di cosa è stata la crisi finora e ti diamo due semplici consigli (spoiler: si parla di comunicazione e smartworking) che ti possono aiutare a tenere il timone saldo.
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La prima vera criticità dell’attuale normalità è psicologica.
Inizia con il chiederti: “siamo davvero consci del fatto che indietro - pre-Covid, insomma - non si possa tornare?”.
Il tranello nel quale siamo caduti tutti, chi prima e chi poi, è stato infatti pensare che quella che si stava vivendo fosse una grande parentesi. E per sua definizione una parentesi si apre e poi si chiude.
Invece no: il protrarsi di una situazione emergenziale rende chiara la necessità di impostare una nuova normalità che, se all’inizio si sovrappone goffamente alla “vecchia”, con l’andare del tempo la rimpiazza proprio.
Forse non tutti si sono però ancora immersi in questo nuovo scenario: il gap psicologico da colmare è a tratti importante e influenza molto il feeling che le persone hanno con il proprio ruolo professionale.
Il secondo ostacolo è logistico: all’inizio della crisi pandemica lo smartworking è stato visto come una necessità emergenziale. Si è dovuto scegliere di far lavorare le proprie persone dalle loro abitazioni o comunque da ovunque fosse loro comodo farlo.
Ma adesso che la crisi è normalizzata e che ci siamo ormai abituati a fare i conti con qualcosa di eccezionale cosa dovrebbe succedere?
Molte aziende se potessero riporterebbero tutti negli uffici o in ogni caso a un panorama “molto 2019”.
Ma è qui che entri in gioco tu, l’influencer (sì, ci piace chiamarti così!) di cui le aziende e il mondo del lavoro hanno bisogno in questo momento, la persona che ha tutte le capacità per valutare oggettivamente la situazione attuale e applicare di conseguenza la miglior soluzione possibile, sia per l’azienda sia per le sue persone.
Dopo un'iniziale difficoltà ad adattare i ritmi della propria esistenza lavorativa a un contesto domestico, oggi ci si trova spesso nella situazione opposta: dover tornare in ufficio per molti è quasi una condanna.
E i punti di criticità sono diversi:
Per un’azienda, per il management e, a pioggia, anche per te che lavori nell’HR non tenere conto di quelle che possono a primo avviso essere futili lamentele è controproducente.
Vediamo allora insieme potenziali scenari e come questi possono evolvere a seconda di una loro diversa gestione.
Come HR-influencer il tuo potere è innanzitutto quello di continuare a favorire la comunicazione, o meglio, di riattivarla. Ci spieghiamo meglio.
Lo smartworking è stato per molte aziende un modo “veloce” di parare i colpi dell’emergenza pandemica. Con tutte le difficoltà che ha spesso comportato, soprattutto in prima battuta, è stato di fatto ciò che ha permesso di non fermarsi, di preservare la produttività e, va da sé, anche una marea di posti di lavoro.
Nel progredire dell’emergenza, le persone coinvolte hanno normalizzato il loro rapporto con una modalità di lavoro che fino ad allora era quasi avveniristica (eccezioni escluse).
Si sono prese le giuste misure per adattare lo smartworking alle proprie effettive necessità che ovviamente non riguardano solo la sfera professionale, ma soprattutto quella privata: dalle relazioni famigliari che a loro volta si sono dovute conformare su nuovi ritmi e “presenze”, fino alla gestione di spazi che prima di allora non accoglievano professionisti, ma solo persone.
Se quindi durante il periodo emergenziale le aziende, e tu per primo, hanno comunicato molto con le loro persone (o almeno ci auguriamo che ciò sia stato fatto), dando indicazioni anche molto pratiche, il mood ora si è un po’ “spento”.
Nel momento di necessità massima le aziende si sono spese per loro stesse e per tutte le loro persone, accompagnandole con cura e dedizione anche quando la strada da percorrere non era chiarissima.
Ma ora, a bocce ferme ed emergenza rientrata (speriamo), le aziende e le loro dirigenze (spesso HR incluse) si sono ritirate nuovamente in cima al vertice e, anziché trovare una soluzione alla puzza di bruciato che si sente, infornano ricette che non tengono conto di una tavola alla quale siedono le stesse persone di un tempo, ma con esigenze diverse.
Prima ancora di capire cosa comporta tutto questo, ti facciamo una domanda: può essere questa una situazione sostenibile?
La risposta è dentro di te, ma, attenzione, è anche in quello che sempre più spesso sta succedendo. Sono i fatti a parlare e a noi piace dar loro voce.
Ne prendiamo, su tutti, uno. In un articolo di qualche settimana fa abbiamo spiegato il tema della Great Resignation, di cui si parla tanto: indipendentemente dalle motivazioni intime e profonde di chi il lavoro lo lascia per dedicarsi a qualcosa che davvero lo appassiona, ciò che appare evidente è un sempre maggiore scollamento tra come le persone si sentono e come le aziende le considerano.
I più giovani, soprattutto, ma anche chi sta “nel mezzo del cammin della propria carriera” (oggi tiriamo in ballo pure Dante), hanno la percezione di non essere rappresentati dalle organizzazioni a cui dedicano tempo, passione, impegno, competenze e, sì, vita.
E chi se non l’HR ha tutte le carte in regola per prendere in mano le redini della situazione?
Se la comunicazione è il primo passo per chi si occupa di HR, una gestione smart, per l’appunto, dello smartworking è il secondo.
Non può esistere comunicazione efficace se la gestione stessa della situazione non è altrettanto efficace.
Nel corso degli ultimi 24 mesi è stato chiesto alla maggior parte dei lavoratori della conoscenza (e qui ci mettiamo dentro tutti quelli la cui presenza in azienda non risulta indispensabile alla buona riuscita del proprio lavoro e alla garanzia di produttività) di non lavorare in ufficio. Oppure di farlo seguendo regole molto stringenti, dal numero contingentato di ingressi giornalieri in azienda, all’adesione, senza sconti, alle norme di comportamento sanitario che tutti noi ormai conosciamo a memoria.
Benché fosse praticamente l’unica strada da seguire, ciò ha comportato un enorme sforzo, mentale e pratico, da parte di tutti. Chi ci ha visto lungo – e chi comunque aveva la possibilità di farlo - ha preso la palla al balzo, ha fatto di necessità virtù e ha, piano piano, introdotto modalità di lavoro nuove (come quelle basate sul lavoro per obiettivi di cui abbiamo scritto qui).
Al netto delle eccezioni, è stato un gran lavoro per tutti e pensare ora, come se nulla fosse successo, di cercare di risalire la china per avvicinarsi sempre di più a uno scenario pre-pandemico è un atteggiamento miope.
Eppure è quello che sta accadendo in molte aziende: alcuni scenari a cui si assiste nelle aziende oggi lanciano un preoccupante messaggio sull’enorme richiesta psicologica e logistica che è stata fatta alle persone senza essere però in grado di offrire, di contro, opportunità virtuose e concorrenziali di lungo periodo.
In molte imprese, per esempio, superata la crisi lo smartworking viene oggi considerato un privilegio, concesso da una possibilità eccezionale. Passata la situazione emergenziale, le comunicazioni che vengono ora spesso recapitate ai lavoratori assomigliano più a quella della maestra che suona la campanella di fine intervallo, che a quelle di aziende che dalla crisi dovrebbero aver imparato.
Limitare lo smartworking a un giorno fisso a settimana, come avviene in molti casi, fa emergere quanto la riorganizzazione di risorse, flussi e approcci non abbia sposato un progetto di ampio respiro.
Tu che ti occupi di HR hai la possibilità di mettere in luce quanto sia miope una gestione simile, che non vuole affrontare un futuro che, ormai lo sappiamo, è fatto di lavoro liquido, spazi fluidi e gestione per obiettivi.
Al netto delle informazioni e delle comunicazioni ufficiali del Governo, il tema dell’emergenza Covid va molto al di là delle restrizioni, degli obblighi sanitari e delle ovvie piccole attenzioni che tutti noi siamo chiamati ad avere giorno per giorno.
La pandemia ha infatti completamente stravolto gli equilibri sociali.
Ciò che si è fatto in questi ultimi due anni per ovviare a una situazione eccezionale ha oscillato tra il chiudere un occhio, mettere una pezza e, nei casi più fortunati, trovare una soluzione che salvasse capra e cavoli (dove ci immaginiamo che la capra sia la produttività e i cavoli i lavoratori e, in particolare, il loro feeling con il loro stesso impiego).
Ma non solo: come ogni crisi che si rispetti, anche quella legata al Covid ha minato la fiducia delle persone in praticamente chiunque e qualunque cosa, lavoro e aziende compresi.
È come se tutto d’un tratto si fossero tolti gli occhiali a un miope che ha quindi cominciato a fidarsi solo di se stesso: tutto quello che stava un pochettino più in là del proprio “orticello” è diventato improvvisamente sfocato.
Sempre per rimanere sul piano metaforico potremmo dire che lavorando nell’HR il tuo compito è ora quello di rimettere gli occhiali al miope che, però, attenzione!, avranno cambiato lenti e montatura.
Il tuo obiettivo, in poche parole, è sgombrare il campo da equivoci, ricostruire un rapporto di fiducia con le persone che lavorano nella tua azienda e farlo partendo da una base che è un ossimoro: una normalità in continua evoluzione.
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