Sono passati quasi 30 anni da quando Robert Lucchetti, nel 1983, ha collaborato all’ideazione dei “contesti per le azioni”, spazi specifici all’interno delle aziende per svolgere attività differenti, una su tutte, per esempio, la conduzione delle riunioni.
Per semplificare potremmo dire che le sale meeting sono frutto dell’intuizione dell’architetto americano: Lucchetti aveva in qualche modo previsto la flessibilità che sarebbe diventata importante – se non indispensabile - negli anni successivi e che ora, grazie al lavoro di Veldhoen+Company, viene appunto definita come Activity Based Working (ABW), ossia lavoro basato sull’attività.
Ma vediamo insieme cosa significa esattamente.
Con Activity Based Working si intende una modalità di lavoro che consente alle persone di scegliere l’ambiente più adeguato a seconda della natura del compito (dell’attività) che stanno portando avanti.
Alla base dell’ABW non c’è però solo il concetto di scelta, ma anche quello di disponibilità: dipendenti, collaboratori e manager di un’azienda devono infatti essere messi nella condizione di avere sempre la possibilità di posizionarsi in uno spazio quanto più possibile adatto per portare a termine le loro specifiche attività.
Per sfruttare un termine caro al mondo dell’intrattenimento televisivo e digitale, potremmo dire che l’Activity Based Working è basato sul principio dell’on demand: lo spazio di lavoro è pensato come adattabile alle esigenze di chi lo sfrutta per svolgere il suo compito professionale e non il contrario.
Portare l’Activity Based Working all’interno di una realtà aziendale non è difficile, ma solo se si sa come farlo. È importante quindi conoscere i principi che lo sostengono:
Nel paragrafo precedente abbiamo parlato di Activity Based Working facendo sempre riferimento a una sede aziendale o, più semplicemente, a un ufficio.
Questo perché lo spazio e la sua organizzazione sono indispensabili, ma altrettanto è anche il cambiamento del proprio mindset, ossia portare le persone ad abbandonare le modalità di lavoro tradizionali a favore invece di una maggiore flessibilità.
La crescente introduzione dello smartworking nella vita della maggior parte dei lavoratori ha sicuramente accelerato questa presa di coscienza, ma la strada da fare non è certo finita.
Durante un evento dello scorso maggio dedicato proprio al rapporto tra Activity Based Working e smartworking Andy Lake, fondatore di Flexibility, ha sottolineato come sia necessario abbandonare i tradizionali presupposti che vedono il luogo di lavoro solo come uno spazio fisicamente condiviso con altri e adattare invece la propria mentalità allo scollamento tra compito professionale e luogo in cui esso si svolge.
La necessità è doppia: prima di tutto occorre normalizzare lo smartworking affinché, poi, gli spazi a esso dedicati (la casa o il cosiddetto “elsewhere” – altrove) siano adatti e adattabili alle proprie attività.
In poche parole bisogna ridisegnare il lavoro per (ri)disegnare lo spazio che si usa per svolgerlo.
Durante lo stesso evento Philip Vanhoutte, fondatore dell’European Smart Work Network, è andato ancora più fondo sottolineando quanto la commistione tra Activity Based Working e smartworking obblighi a una profonda riflessione sulla natura del proprio lavoro e sulle sue caratteristiche in termini di relazione, flessibilità, produttività e cultura così che la persona possa sapere esattamente di quali spazi ha bisogno per svolgere i propri compiti.
È per questo motivo che si è iniziato a parlare di Distributed Activity Based Working, un mix di luoghi di lavoro dai quali operare. A seconda dei compiti da svolgere, della propria personalità e delle proprie possibilità, le persone devono ora essere in grado di poter scegliere da dove essere attivi, quando esserlo e per fare cosa.
È lampante quindi che smartworking e Activity Based Working condividano una stessa prospettiva, ossia quella del lavoratore al centro del processo. Esigenze e risultati finali non si analizzano prima e valutano poi dal punto di vista del lavoro, ma anzi da quello della persona.
L’adozione di strumenti tecnologici avanzati nella gestione del lavoro e un affiancamento continuativo da parte dell’HR aiutano sicuramente nel far emergere quali principi dell’ABW occorre ottimizzare o addirittura implementare per migliorare la qualità dell’esperienza professionale delle persone coinvolte.
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Se al centro dell’Activity Based Working c’è la persona, è lapalissiano affermare che vi è anche il suo benessere: il legame tra lavoro e salute - e soprattutto le riflessioni su come migliorare la seconda sui presupposti del primo - è un tema sempre più caro alle aziende.
Il rapporto ISISTAN del 2018, realizzato dall’Istituto superiore di Sanità insieme a Ministero della Salute e al CONI, ha accertato che la sedentarietà è responsabile del 14,6% di tutte le morti in Italia.
Il rapporto non esplicita direttamente la relazione tra salute e lavoro, ma appare chiaro – anche in virtù di ricerche simili fatte in altri Paesi europei – che il presenteismo statico (ossia la tendenza a permanere sempre nello stesso luogo di lavoro e spesso nella stessa posizione) sia tra le prime ragioni, se non l’unica, della sedentarietà.
In questo scenario l’Activity Based Working permette in linea generale di diminuire le fonti di stress, aumentare il movimento delle persone che lavorano (banalmente perché non gli viene richiesto di sedere tutti i giorni e tutto il giorno alla – stessa – scrivania), migliorare le proprie abitudini alimentari e aumentare la produttività dei singoli e dei team.
A tal proposito è stato l’International Journal of Environmental Research and Public Health a esaminare, attraverso uno studio condotto in Australia su 146 partecipanti, l’impatto dell’ABW sulla soddisfazione personale, sulla produttività e sulla salute dei lavoratori.
Per questa ricerca sono state prese in considerazione le seguenti metriche:
Nello studio sono stati paragonati i dati delle metriche prima e dopo l’introduzione dell’Activity Based Working. In tutti i casi le statistiche sono migliorate, dimostrando come ogni punto dell’elenco abbia beneficiato di un approccio al lavoro lontano dai cosiddetti “presupposti tradizionali”.
Un radicale spostamento di paradigma lo sta facendo chi è convinto che la nuova vera frontiera dell’ABW sia la necessità di un legame tra i luoghi deputati al lavoro e la natura.
A questo proposito è nato Ozadi, il movimento fondato da Philip Vanhoutte con l’obiettivo di portare la natura nel mondo del lavoro, che ha dimostrato come la biofilia (l’interesse nei confronti della vita e dei processi vitali) messa in stretta relazione con l’attività professionale riesca a generare un aumento di felicità e gentilezza, nonché un incremento del 300% in termini di creatività e del 50% di produttività.
Risultati così soddisfacenti derivano dalla maggiore permanenza delle persone negli spazi aperti: la salute – fisica e mentale - ne beneficia dando ancora una volta ragione alla locuzione latina “mens sana in corpore sano”.
Implementare un modello di lavoro ABW ha sicuramente un forte impatto sulla reputazione aziendale, andando così ad aiutare ogni strategia di employer branding.
Comunicarsi e dimostrarsi come un’organizzazione flessibile e attenta alle esigenze delle proprie persone permette infatti all’azienda di attrarre più facilmente nuovi talenti, ma anche di aumentare il tasso di retention di quelli già al suo interno.
Nel Millennial Survey, condotto qualche tempo fa da Deloitte, emerge chiaramente quanto l’omonima generazione sia aperta a un livello di loyalty e coinvolgimento più alto nei confronti di aziende flessibili e attente al benessere dei suoi lavoratori.
La possibilità di uno spazio di lavoro flessibile, adattabile alle specifiche esigenze dei propri task professionali comunica una maggior aderenza dell’azienda alle necessità dei talenti contemporanei.
Come introdurre quindi questa modalità di lavoro innovativo in una strategia di employer branding?
Innanzitutto comunicandola come un’estensione (o forse faremmo meglio a chiamarlo riflesso) della cultura aziendale: come dicevamo in uno dei paragrafi precedenti, valori aziendali e cultura organizzativa si riflettono (anche) nel design dello spazio di lavoro.
Un’azienda che dimostra di prestare attenzione ai bisogni delle sue persone già dalla progettazione dei suoi uffici è, agli occhi di un potenziale candidato, un’azienda più competitiva di quella che invece non ci ha ancora pensato.
Mettere a disposizione, per esempio, spazi adeguati alla concentrazione o, al contrario, al brainstorming, o ancora luoghi dove poter “staccare” dalla routine senza per questo abbandonare l’edificio aziendale, o addirittura angoli immersi nella natura per favorire una connessione più profonda con elementi vitali equivale a garantire ai propri talenti un bonus intangibile economicamente, ma indispensabile a livello di benessere.
Per questo motivo è importante - attraverso i mezzi sui quali si sceglie di puntare per l’employer branding (i social media, per esempio) – saper comunicare non solo le caratteristiche degli spazi di lavoro a disposizione delle persone, ma anche i benefit che questi possono portare alla produttività del singolo, alla sua soddisfazione personale e al suo benessere.
In ottica di un racconto “caratteristiche-vantaggi-benefici”, conviene – almeno per questa volta – focalizzarsi sui benefit e risalire la china fino alle caratteristiche.
Il beneficio, per esempio, di avere a disposizione spazi dedicati allo sport è quello di incrementare il livello di creatività delle persone: scaricare l’energia “fisica” permette di ricaricarsi mentalmente e, nello stesso tempo, di sentirsi complessivamente meglio.
Far sapere a un candidato che l’azienda garantisce che ciò sia possibile al suo interno risulta essere parecchio rassicurante.
Martin Welke, Senior Director Fitness & Health Management in adidas, lo spiega così: “Ogni azienda dovrebbe garantire alle persone un ambiente sano e stimolante perché abbiano la possibilità di massimizzare le loro performance professionali”.
Ne abbiamo parlato proprio qui sopra: quello di adidas è uno degli esempi più di successo di un’organizzazione che ha fatto suo il baluardo dell’activity based working.
Partiamo dal principio dicendo che l’azienda tedesca ha da sempre puntato molto sul concetto di cultura aziendale, non sfruttandolo come mero specchietto per le allodole in termini di marketing e di comunicazione, ma credendoci davvero.
In tempi in cui è relativamente semplice “prendere ispirazione” dalle altrui strategie di comunicazione, marketing, commerciali e via dicendo, ciò che risulta praticamente impossibile è invece replicare il modo in cui le persone si sentono all’interno di un’azienda, come si muovono al suo interno e come respirano l’energia che ne viene sprigionata.
Sin dal 1957 -– anno della sua fondazione – adidas ha sempre prestato attenzione al “workplace”: il quartier generale a Herzogenaurach, in Germania, è infatti progettato affinché chiunque lo frequenti abbia la possibilità di sprigionare tutto il suo potenziale.
Dagli spazi dedicati allo sport, alla proposta quotidiana di attività meno fisiche, ma più mentali (workshop, conferenze, incontri, e così via), le persone sono lasciate libere di scegliere il luogo migliore dove svolgere la propria attività, ma soprattutto quando farlo e con chi.
Il design dello spazio è la leva che viene utilizzata per promuovere una cultura del lavoro che funziona a obiettivi più che a tempo speso su ogni singolo compito professionale.
Sentirsi liberi di muoversi – letteralmente, fare esperienza creativa “manuale”, orari di lavoro flessibili e l’invito a interagire con gli altri, indipendentemente dal team di appartenenza e dal ruolo svolto, garantiscono all’azienda tassi di produttività, di felicità e di retention dei talenti estremamente alti.
Di altra natura è il ragionamento alla base del design degli spazi di WeWork. Il motivo è semplice: il colosso americano del coworking – sbarcato da qualche anno anche in Italia – di fatto “vende” ad aziende e freelance spazi nei quali lavorare. Il workplace è, in definitiva, il cuore del suo stesso business.
Solo questo? In realtà no. In ottica di Activity Based Working, appunto, l’azienda ha deciso di progettare i suoi coworking perché siano dei veri e propri luoghi esperienziali. Ci si va per lavorare, è vero, ma lo si fa in modo totalmente differente rispetto all’accezione tradizionale del termine.
A questo proposito Claire Rowell, responsabile senior ricerca applicata e cultura di WeWork, afferma che “oggi gli stili di gestione più efficaci sono basati sulla fiducia e sull’autonomia piuttosto che su comando e controllo. Lo spazio fisico, quindi, può rafforzare o contraddire questi sforzi".
Gli uffici di WeWork seguono quindi questa filosofia, richiedendo quindi a chi li utilizza di adattarsi a un nuovo modo di vivere la propria esistenza professionale.
Per concludere possiamo affermare che l’introduzione dell’Activity Based Working presenta, in linea di massima, quattro tipologie di benefici:
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