Le strategie per garantire la miglior esperienza possibile all'interno di un'azienda.
Trattenere i talenti e assicurarsi quindi una relazione di lungo periodo con persone le cui competenze sono un valore irrinunciabile è una delle attuali priorità delle aziende.
Se le fasi di recruiting e di employer branding sono fondamentali per permettere l’ingresso in azienda di professionisti che siano in grado di esprimere al meglio le loro motivazioni, intrinseche ed estrinseche, ecco che l’Employee Experience determina invece la retention di queste stesse persone.
Ma andiamo con ordine rispondendo a una semplice domanda, ossia: di cosa parliamo quando parliamo di Employee Experience?
Con Employee Experience si definisce tutto ciò che un lavoratore osserva e percepisce durante la sua intera esperienza in azienda. Molti fattori determinano la qualità del vissuto di una persona in un’organizzazione andando a peggiorare o a migliorare il percepito.
Work-life balance, spazi di lavoro, relazioni con i colleghi, flessibilità nella gestione del tempo e degli obiettivi, possibilità di utilizzare strumenti tecnologici, remunerazione e accesso a specifici benefit contribuiscono a modificare l’Employee Experience, appunto.
Jacob Morgan, autore del saggio “The Employee Experience Advantage” afferma che investire affinché si venga considerati come quel luogo in cui le persone vogliono lavorare (più che averne strumentale necessità) sia uno dei principali traguardi – se non l’unico – di un’azienda contemporanea.
Il ROI (ritorno sull’investimento) è significativo e si traduce in un incremento di produttività, profitto e fatturato per ciascun lavoratore così come in una migliore performance dell’azienda sul mercato.
Parallelamente al saggio, Morgan ha stilato la classifica delle aziende (USA) che garantiscono la miglior Employee Experience: a essere valutati sono tre fattori, ossia la cultura aziendale, gli spazi di lavoro e gli strumenti tecnologici a disposizione dei lavoratori. Secondo il suo Employee Experience Index a vincere sulle altre aziende è Facebook che con un punteggio complessivo pari a 105 supera, anche se di poco, Google e Apple, rispettivamente al secondo e terzo posto.
Sempre secondo Morgan a determinare una buona o cattiva Employee Experience sono fondamentalmente tre fattori: l’ambiente fisico (la sede di lavoro per intenderci), la mentalità (i valori dell’organizzazione e come questi vengono condivisi internamente ed esternamente) e le tecnologie sfruttate per il lavoro di tutti i giorni.
Questi tre aspetti del quadro sono l’uno legato agli altri: la cultura aziendale (che possiamo definire anche come mentalità, appunto) influenza l’affiatamento dei team le cui persone si trovano più a loro agio quando immerse in un luogo di lavoro confortevole all’interno del quale poter avere accesso a tecnologie innovative e avanzate per lo svolgimento delle proprie mansioni.
Importantissimo è poi capire che l’Employee Experience è frutto di una strategia, alla pari di qualsiasi altro progetto aziendale, che ha come obiettivo l’incremento della produttività, della qualità del lavoro (così come dei prodotti e dei servizi) e del benessere dei propri manager, dipendenti e collaboratori. Approfondiamo.
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Si è parlato di strategia e non si può quindi ignorare che alla base dell’Employee Experience c’è quella che, sulla falsariga del customer journey – concetto caro ai marketer - si è chiamato employee journey.
In un articolo di qualche tempo fa, Deloitte delineava proprio la storia dell’employee journey (e quindi experience) iniziata quando un professionista HR decise di applicare le teorie del design thinking anche alle attività interne all’azienda, e quindi anche alle sue persone.
Alla pari del “viaggio del consumatore” anche quello del “lavoratore” viene spesso disegnato, per facilità di comprensione, come un percorso lineare dove a uno step segue un altro senza soluzione di continuità.
La realtà delle cose è chiaramente diversa: nulla in un percorso d’acquisto (quello del consumatore per intenderci) è mai totalmente prevedibile e lo stesso vale quindi nell’employee journey: quel che è certo, però, è che l’azienda può fare del suo meglio, a livello strategico appunto, per garantire alle persone la miglior esperienza possibile, dall’intervista all’ingresso nel team di lavoro, dai benefit previsti alle interazioni con colleghi e superiori, gestione dei feedback inclusa.
Ciò che è fondamentale per l’azienda, e soprattutto per l’HR, è identificare e analizzare i momenti importanti del journey, ossia, come si dice in gergo, mapparlo.
Solitamente il percorso viene suddiviso in 3 macro-fasi composte a loro volta da momenti più precisi:
Pur avendo fatto riferimento al concetto di employee engagement è bene precisare che non si tratta di un sinonimo di Employee Experience: mentre la seconda abbraccia infatti tutto il percorso della persona all’interno di un’azienda, il primo serve più semplicemente a orientare la motivazione a breve termine per il raggiungimento di benefici che soddisfino la persona nell’immediato.
L’Employee Experience è un processo bottom-up (che si sviluppa quindi dal basso verso l’alto) in cui processi, spazi e flussi di lavoro sono disegnati intorno alle preesistenti caratteristiche delle persone che lavorano in azienda.
In poche parole l’Employee Experience riconosce che a dover essere al centro è il lavoratore e non il datore di lavoro o, più in generale, l’azienda. Molto spesso questo approccio viene definito people-centric.
Progettare l’esperienza in questo modo permette alle persone di esprimere al meglio se stesse e le proprie competenze: focalizzandosi infatti sui naturali orientamenti psicologici dei lavoratori, l’esperienza viene pensata per migliorare le prestazioni.
Più che una strategia, spesso si tratta di una semplice questione di buon senso: ci vuole poco per capire che l’esperienza che sta alla base di una relazione di lunga durata, basata su scambi alla pari e colma di valore, debba essere focalizzata sull’individuo.
È necessario però tenere in considerazione che molte Employee Experience sono processi top-down (disegnati quindi dall’alto verso il basso) ben travestiti da approcci bottom-up.
In molte aziende, infatti, quando ci si riferisce, per esempio, al work-life balance si strizza l’occhio all’importanza di prevedere nella propria vita anche del tempo non destinato all'attività lavorativa, alludendo implicitamente al fatto che sia quasi scontato considerare il lavoro come elemento centrale del proprio equilibrio.
Altre “trappole” che alcune aziende attuano sperando di cavarsela facilmente ma che con i lavoratori di oggi, sempre più informati, sono difficili da non notare, sono le attività travestite da team building o altre iniziative di valore per la persona ma che in realtà portano valore solo all’azienda, in termini di idee, lavoro extra, o informazioni sui collaboratori difficili da reperire altrimenti. Non sono certamente più i tempi in cui è possibile proporre queste iniziative “truccate” e passarla liscia, ma è bene comunque citarle.
Per concretizzare la necessità di un’esperienza umana anche sul luogo di lavoro, risulta fondamentale per le aziende pensare all’Employee Experience esattamente nello stesso modo in cui riflettono sulla Customer Experience.
L’obiettivo deve quindi essere la massimizzazione dell’esperienza: non si tratta in questo caso di quella d’acquisto, ma di quella di lavoro.
A giocare un ruolo fondamentale è l’HR le cui tradizionali responsabilità, dal recruiting all’onboarding, passando per workflow design e talent development, da sole non riescono a garantire il raggiungimento dell’obiettivo.
La parola d’ordine, ancora una volta, è quindi collaborazione: con il reparto IT (per tutto quel che riguarda la tecnologia), con il finance (se pensiamo all’aspetto remunerativo), con il marketing, già citato, ma anche con chi si occupa dell’office design (quando ci riferiamo all’ottimizzazione degli spazi di lavoro).
Vediamo le principali aree d’azione:
Il processo è più intimo e dovrebbe essere portato a termine progettando un’esperienza personalizzata per ciascun lavoratore: al centro, ricordiamoci, non c’è (più) l’azienda ma la persona che ne farà parte.
Obiettivo dell’HR deve essere quello di non considerare però queste fasi separatamente, ma trattare invece l’Employee Experience in modo olistico: tutto concorre in egual misura alla qualità della percezione dell’esperienza e i bisogni delle persone devono essere trattati in maniera globale.
A sostegno di tutto quanto è stato elencato, non può mancare la tecnologia e, in particolare, non possono mancare gli strumenti digitali, indispensabili per un’analisi puntuale delle fasi dell’esperienza.
La strategia di People Analytics, ossia l’uso dei big data e quindi di precise analisi quantitative e relative statistiche per la gestione delle persone, supporta l’HR nel rilevare eventuali anomalie in azienda, come, per esempio, un turnover mediamente più alto del solito in un reparto specifico.
Ma non solo, ovviamente. Altri strumenti digitali per l’Employee Experience sono, per esempio:
In particolare, nella fase di retention, le survey permettono di individuare con precisione le necessità e i desiderata dei propri collaboratori. I risultati raccolti consentiranno all’HR di impostare una strategia di Employer Branding efficace e senza spreco di effort, garantendo la migliore esperienza possibile all’interno dell’azienda.
Unendo i dati statistici (quantitativi) con quelli legati all’esperienza delle singole persone (qualitativi), l’HR ha la possibilità di avere sempre il polso della situazione diventando il vero baluardo di quella che è stata definita “experience economy”, dove ad avere successo sono le aziende che usano il supporto dei dati per raggiungere risultati eccellenti.
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