Nel 1789 in Francia, poche settimane dopo la presa della Bastiglia, una commissione incaricata dall’Assemblea nazionale costituente pubblicò la celebre “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”: una solenne proclamazione di tutti i diritti fondamentali di un cittadino. Un paio di anni più tardi la scrittrice Olympe de Gouges pubblicò la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, il primo documento a invocare l’uguaglianza giuridica tra donne e uomini e una decisa critica alla Rivoluzione francese, colpevole di aver dimenticato le donne nel suo progetto di libertà e uguaglianza.
Da allora sono trascorsi più di due secoli: una storia di traguardi, studi, e lotte per i diritti delle donne, che nel tempo hanno ampliato il raggio d’azione rivendicando la parità sia nella sfera domestica che in quella pubblica e professionale. Una storia che si intreccia con quella del cosiddetto gender gap, ovvero il divario tra generi, con particolare riferimento alle differenze sociali e professionali tra uomini e donne secondo i criteri delle condizioni di lavoro e di crescita economica, delle opportunità educative, della presenza politica e della salute.
Il gender gap è quel gradino che identifica il divario fra genere maschile e femminile nel mondo e che pone necessariamente l’attenzione sulla condizione di disparità in cui vivono le donne di ogni Paese.
Certamente la situazione è molto cambiata dall’antichità e dalla Rivoluzione francese, ma la strada da fare è ancora lunga, e non solo in Paesi lontani dal nostro. A ricordarcelo è il World Economic Forum, che da più di un decennio tiene sotto osservazione il divario di genere attraverso il Global Gender Gap Report, stilando ogni anno una classifica dei Paesi del mondo in merito alla parità di genere secondo quattro indicatori: salute, educazione, economia e politica.
Per quanto riguarda la salute, il report considera fattori quali l’aspettativa di vita e l’età media diversa tra uomini e donne, ma anche l’opportunità di accedere a cure di base o specialistiche.
Qualcosa di simile avviene per l’educazione: i tassi di scolarizzazione, l’obbligo di frequenza scolastica e l’accessibilità a percorsi di formazione superiore sono tra quei fattori che contribuiscono a posizionare o meno un Paese in alto nella classifica. Per quanto riguarda la politica vengono presi in considerazione tanto il suffragio universale, per esempio, quanto il numero di donne che ricoprono ruoli istituzionali.
All’interno dell’indicatore economico rientrano invece tutte le tematiche inerenti alla sfera professionale, come la sotto-rappresentanza femminile in certi settori, lo scarso numero di donne impiegate come figure apicali delle aziende e, non ultimo, il gender pay gap, ovvero la differenza tra la retribuzione di uomini e donne a parità di ruolo e di mansione. In Europa, per esempio, secondo il Global Gender Gap Report la differenza di retribuzione è del 16% e per le pensioni la situazione è ancora peggiore, con una differenza del 39%. In poche parole: stessa professione, stesse responsabilità, stesso orario, ma buste paga diverse.
Molti studi individuano la principale causa del gender gap nelle culture dei vari Paesi, in cui spesso la figura femminile è ancora relegata alla dimensione domestica e familiare, lontana da una carriera che possa condurla a una posizione di rilievo nella società e nel proprio contesto lavorativo.
Ciò su cui ci si interroga ancora sono invece gli effetti del divario di genere: è evidente che vi siano importanti conseguenze sul senso di sicurezza e sulle ambizioni delle donne, e sulle scarse aspettative di un buon equilibrio tra vita personale e professionale, mentre sempre più studiosi concordano nel considerare il gender gap una forte limitazione alla crescita del PIL nazionale di ogni Paese e dell’economia in generale.
Il tema della maternità è calzante perché spesso anch'essa può compromettere le aspirazioni di crescita professionale. Le aziende dovrebbero impegnarsi a costruire contesti ideali affinché una donna possa scegliere con serenità questo percorso personale, ad esempio: definendo una strategia di smart working efficace, strutturando un piano welfare, mantenendo un piano di incentivi e aumenti, predisponendo un nuovo sviluppo di carriera con mobilità orizzontale e trasversale.
Il benessere personale e lavorativo delle proprie collaboratrici non può e non deve essere concepito come un problema per la popolazione aziendale, ma al contrario deve diventare un’occasione per coinvolgere e creare valore per tutti stakeholder, con la consapevolezza che persone piene e complete sono professionisti migliori.
Alessandro Raguseo, CEO Reverse
Come si può coniugare il benessere e le aspirazioni delle proprie collaboratrici con i bisogni dell’azienda? Leggi la guida
Una buona notizia qualche anno fa era arrivata con la proroga della legge Golfo-Mosca, in vigore dal 2011 che, per contrastare la discriminazione nei confronti delle donne nei consigli di amministrazione delle aziende, obbliga le società quotate a riservare un terzo dei posti nei board di controllo alla rappresentanza femminile.
Secondo Mariano Corso del Politecnico di Milano «la proroga della Legge Golfo-Mosca sulle quote di genere nei CdA era stata una misura necessaria per dare un segnale importante e per evitare pericolosi passi indietro. Ma non basta. Le vere pari opportunità non si costruiscono nei CdA o nei Collegi Sindacali. Sono altre le vere stanze dei bottoni, altre le palestre di sviluppo professionale.
Per creare pari opportunità bisogna promuovere un cambiamento di cultura e modelli organizzativi, così da incoraggiare e promuovere la leadership delle donne e vigilare perché non ci siano discriminazioni e disparità di trattamento fin dai livelli operativi e poi a ogni livello di crescita manageriale».
Lo scorso 4 marzo, invece, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha presentato la proposta di una direttiva sulla trasparenza salariale per garantire che nell’Unione Europea donne e uomini ricevano la stessa retribuzione per uno stesso lavoro. La Commissione propone che i datori di lavoro con almeno 250 dipendenti rendano pubbliche all’interno della loro organizzazione le informazioni sul divario retributivo tra donne e uomini. Non solo: se risulta un gender pay gap di oltre il 5% senza cause oggettivamente neutre dal punto di vista del genere, i datori di lavoro dovranno rivalutare le retribuzioni.
Il diritto alla parità di retribuzione per uno stesso lavoro tra uomini e donne è un principio fondante dell’Unione Europea sin dal trattato di Roma del 1957, ma ancora oggi è in buona parte non applicato, nonostante vi sia una direttiva del 2006 rafforzata nel 2014 da una raccomandazione della Commissione che impone di assicurare la parità di salario tra lavoratori e lavoratrici.
«Lo stesso lavoro merita la stessa retribuzione e per la parità di retribuzione è necessaria la trasparenza. Le donne devono sapere se i loro datori di lavoro le trattano in modo equo. In caso contrario, devono potersi opporre e ottenere ciò che meritano». Secondo von der Leyen e la Commissione Europea, a ostacolare l’applicazione di queste norme sarebbe proprio la mancanza di trasparenza retributiva, che è l’obiettivo principale della proposta.
Il problema del gender gap è ormai universalmente riconosciuto ma la situazione non è la stessa in ogni settore e occorre fare alcune distinzioni per avere un quadro più chiaro della situazione.
Partiamo con un dato positivo: in ambito istruzione e salute, donne e uomini sono molto vicini alla parità. Per quanto riguarda l’istruzione, il 95% del gender gap a livello globale è stato colmato, con 37 Paesi che sono finalmente riusciti a raggiungere la piena parità di rappresentanza: secondo le stime del Global Gender Gap Report, ci vorranno circa 14 anni per raggiungere questo risultato anche in tutti gli altri Paesi. Una situazione analoga al settore della salute, in cui il gap è stato colmato al 96%.
Occorre fare però un’importante precisazione, perché non dobbiamo dimenticarci che nel settore della salute non vi sono solo medici ma anche infermieri, Oss, operatori delle case di riposo: categorie che vedono quasi un monopolio femminile, in Italia più che all’estero, ed è chiaro che se tra i primari prevalgono gli uomini e invece questi ultimi sono una rarità tra gli Oss, gli stipendi medi maschili sono generalmente più alti di quelli femminili.
Al contrario, il gender pay gap in Italia è minimo in settori dove però la presenza femminile è molto bassa, come quello minerario e dell’edilizia: è probabile che le poche donne presenti qui siano occupate nel management e non si dedichino al lavoro fisico-manuale, il cui il salario è tendenzialmente inferiore.
Un altro ambito dove possiamo riscontrare una situazione per certi versi positiva, ma che presenta risvolti meno edificanti, è quello della pubblica amministrazione: qui il divario tra lo stipendio di una donna e quello di un uomo è molto più contenuto rispetto ad altri settori, meno del 4%, probabilmente anche grazie a una forte sindacalizzazione e regolamentazione del lavoro, con l’utilizzo di criteri diversi rispetto al privato.
E proprio questo è il punto: la differenza maggiore a livello di gender pay gap in Italia è proprio quella tra il pubblico e il privato, la più alta di tutta l’Europa: in Italia la distanza è di oltre il 13%, in Germania per esempio è del 12%, in Spagna del 6% circa mentre in Francia non vi è alcuna differenza. Ancora una volta, quindi, anche dietro a statistiche positive si nascondono le reali problematiche, come per esempio un sistema fatto di welfare troppo debole che non consente alle donne di gareggiare ad armi pari con gli uomini quando il lavoro e la carriera seguono le regole del mercato.
Molto chiara invece è la situazione del lavoro femminile in ambito scientifico, informatico e tecnologico. Nonostante oggi viviamo in un contesto di forte spinta sulla digitalizzazione, il numero di donne impiegate in questi settori continua a essere troppo basso. Solo due degli otto cluster di “lavori di domani” monitorati dal Global Gender Gap Report (People & Culture e Content Production) hanno raggiunto la parità di genere, mentre la maggior parte mostra una grave sotto-rappresentanza delle donne: cloud computing, engineering, Data and AI, Sales, Product Development Marketing.
Il problema si presenta sin dalla fase della formazione: in Italia solo il 16,5% delle giovani donne consegue una laurea in materie scientifiche, contro il 37% degli uomini, e soltanto il 22% delle ragazze sceglie di diplomarsi negli istituti tecnici contro il 42% dei coetanei maschi.
Per quanto riguarda il gender pay gap, nel settore delle attività professionali e scientifiche si arriva a un divario del 24,9%. Parliamo di una categoria che racchiude le professioni legali, quindi gli avvocati, gli architetti, coloro che lavorano nelle aziende di consulenza o di marketing e pubblicità, nella ricerca e sviluppo. Insomma, si tratta di alcune tra le categorie meglio pagate e in alcuni casi le posizioni che sono cresciute di più numericamente negli ultimi 20 anni, ed è particolarmente indicativo che proprio in questo ambito sia massima la differenza stipendiale: dove si possono raggiungere salari anche molto alti, le donne rimangono più indietro.
Questo ci suggerisce che il problema femminile non è tanto e solo negli stipendi di base, ma anche nei possibili miglioramenti di carriera. Anche in presenza di un livello d’istruzione superiore le lavoratrici più raramente arrivano al vertice, e lo si vede dai dati sul gender pay gap nelle attività finanziarie, altro ambito molto competitivo in cui la carriera conta molto: qui il differenziale arriva al 22,7%.
La crisi causata dal Covid-19 ha colpito tutti, ma le donne hanno subito conseguenze più gravi e prolungate rispetto agli uomini, per diversi motivi. Innanzitutto, i settori più colpiti sono stati quelli con una maggiore partecipazione femminile alla forza lavoro; di conseguenza, il tasso di occupazione delle donne è sceso più di quello degli uomini.
Inoltre, la partecipazione alla forza lavoro è calata più severamente per le donne perché spesso, a causa delle dinamiche sociali dei singoli Paesi, sono toccati a loro i compiti di cura della casa e della famiglia. Anche i tassi di riassunzione sono stati meno elevati, con rallentamenti nelle promozioni a posizioni di leadership, e i periodi di disoccupazione prolungati possono avere un forte impatto sulle possibilità future di carriera. Del resto è previsto che il divario nella partecipazione alla forza lavoro aumenterà ulteriormente in futuro: il dato del Global Gender Gap Report che più salta all’occhio è quello che indica gli anni che dovrebbero essere necessari per chiudere il gap nella partecipazione economica, che attualmente sono addirittura 267,6. Nessuno di noi, e nemmeno i nostri figli e i nostri nipoti, potrebbe mai vedere la parità di genere assoluta.
Quello che emerge dal Report, insomma, è che i passi avanti degli ultimi anni sono stati pochi e lenti. Il progresso è stagnante e le disparità esistenti sono in parte cresciute per via della crisi causata dal Covid.
Anche il rapporto pubblicato da Istat in collaborazione con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Inps, Inail e Anpal va in questa direzione e fa emergere 5 elementi che riguardano l’occupazione femminile:
Detto ciò, occorre comunque sottolineare che al di là del Covid-19 la situazione occupazionale delle donne era purtroppo già alquanto precaria. Nel 2019 il 17% delle donne lavorava a tempo determinato, mentre quelle con contratto part-time erano un terzo del totale delle occupate, contro l’8,7% degli uomini, percentuale che sale al 42% tra le donne senza un diploma. È dunque evidente come quello del gender gap sia un problema che ha le sue origini in dinamiche socio-culturali ben radicate nei singoli Paesi e che per risolverlo occorrano al contempo sia interventi mirati da parte del legislatore, sia la promozione di un cambiamento culturale all’interno delle aziende e dell’intera società nel suo complesso.
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