Il periodo a cavallo tra la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo è foriero di recap e di previsioni. Ci si guarda indietro per avere una visione più lucida di quel che accadrà. Si analizza quello che è stato per arrivare preparati a ciò che sarà.
In questo articolo scopriamo insieme quali si presume possano essere i 5 trend HR per il 2022 e, prima però, proviamo a riassumere cosa è successo nel mondo delle Risorse Umane negli ultimi 12 mesi, tra certezze, tendenze ed evoluzioni.
Se quanto accaduto nel 2020 poteva sembrare solo una parentesi rispetto a metodologie di lavoro tradizionalmente accettate e interiorizzate (dai singoli e dalla società in generale), il 2021 ha sancito l’ufficializzazione, sotto svariati punti di vista, del lavoro da remoto.
E con esso, quindi, anche di metodologie di management e di lavoro, appunto, che si basano sul raggiungimento degli obiettivi.
Parliamo, in questo caso, dei cosiddetti OKR (Objective and Key Results) ossia l’objective, lo scopo “alto” che si vuole raggiungere, e i key results, le azioni da intraprendere per ottenere il risultato prefissato.
Questa metodologia, a differenza dei KPI e degli MBO, risulta flessibile e poco “ansiogena”: si collabora in modo trasparente e l’assenza di “rush” da numero consente alle persone di cooperare più serenamente, anche senza condividere lo stesso spazio fisico.
Gli OKR ben si adattano al lavoro da remoto, la cui metodologia è lontana dall’idea tradizionale del perseguimento dell’obiettivo. Lo smartworking (ma anche l’homeworking o comunque il lavoro ibrido) ha portato con sé una sempre crescente necessità di fiducia: non si sta più tutti insieme, ma insieme si coopera per il conseguimento di un comune risultato finale.
Preferire un metodo di lavoro che si focalizza sul come si raggiunge un obiettivo più che sul fatto di raggiungerlo tout court, permette di stare al passo con le rinnovate ed evolute esigenze del proprio mercato di riferimento, ma anche con le nuove necessità del mondo del lavoro.
Va da sé che l’azienda che adotta gli OKR non solo deve avere la cultura dell’obiettivo, ma deve averne stabilito anche uno a lungo termine.
Il purpose, che dalla seconda metà del 2020 a oggi ha fatto strage di citazioni, non deve essere semplicemente uno statement pubblicato sul sito dell’organizzazione, ma deve essere interiorizzato da chi lavora in azienda grazie soprattutto all’impegno del management e dell’HR.
Stabilita la direzione, il resto viene – più o meno - da sé. Se l’azienda, infatti, esplicita chiaramente qual è l’obiettivo ultimo e in qualche modo indica alle sue persone quale strada percorrere per arrivarci, come farlo sarà responsabilità dei singoli e quindi dei team di cui fanno parte. Ognuno sarà dotato, così, della giusta dose di libertà per ottenere il risultato desiderato, potendo scegliere il metodo di lavoro che più si adatta alle sue competenze, soprattutto quelle soft.
Se è vero che gli OKR risultano ora una metodologia attuale e coerente con le esigenze del mercato del lavoro, è altrettanto vero che anche il sistema di valutazione per obiettivi più noto, quello dei KPI (Key Performance Indicator), non ha smesso di essere centrale nella gestione delle performance aziendali.
Anche in questo caso per stabilire i KPI da raggiungere è necessario che l’obiettivo ultimo dell’azienda, quello che prima abbiamo chiamato purpose, sia chiaro e definito.
Fatto questo, il metodo SMART per delineare quali sono i risultati da valutare è sicuramente quello più efficace.
Un KPI, in buona sostanza, dovrà essere specific (specifico), measurable (misurabile), attainable (realistico), relevant (rilevante) e time bound (con una limitazione temporale).
La metodologia dei KPI è pertanto estremamente concreta, soprattutto quando gli indicatori selezionati non sono quelli generalmente utilizzati dal proprio settore di riferimento, ma sono invece tarati sulla realtà dell’azienda che li andrà poi a valutare.
Affondano invece le radici della loro storia nel lontano 1954 gli MBO (Management By Objectives), un metodo di valutazione delle risorse che si basa sui risultati raggiunti a fronte degli obiettivi comuni che sono stati prefissati dall’azienda.
Come per gli OKR e i KPI, anche in questo caso è fondamentale una chiara direzione organizzativa verso un comune obiettivo.
Questa metodologia, a differenza delle prime due, però, prevede che a fronte della definizione del risultato primario si passi a quella di specifici obiettivi per aree di business e, poi, di obiettivi individuali.
Pianificazione, formazione dei lavoratori (che devono essere messi a bordo rispetto alle modalità di conseguimento degli obiettivi aziendali), verifiche da svolgere durante il percorso e valutazione delle persone rispetto ai risultati attesi sono le quattro fasi salienti del metodo MBO.
Se il lavoro ibrido ha richiesto una nuova efficace impostazione di obiettivi aziendali e conseguente produttività, il 2021 è stato terreno fertile per una riflessione sul tema del gender gap.
La motivazione, ahinoi, non è nobilissima: il Covid-19 ha infatti purtroppo impattato negativamente sulle condizioni professionali delle donne. Da una parte i settori più colpiti sono stati quelli a prevalenza “rosa” e dall’altra, una necessaria riorganizzazione dell’assetto famigliare che restrizioni e divieti hanno imposto, ha fatto sì che fossero le donne a prendersi in carico i compiti di cura della casa e della famiglia.
I tassi di riassunzione non elevati hanno messo il carico da 90 e con essi anche ingenti rallentamenti nelle promozioni a posizioni di leadership. Periodi di disoccupazione lunghi, inoltre, portano con loro anche difficoltà di ricollocamento, con tutto ciò che ne consegue.
Al netto delle varie sfaccettature del gender gap, che si manifesta sia sotto forma di differenze salariali, sia occupando percentuali diverse di uomini e donne a seconda dell’industry di riferimento, il 2021 ha visto anche la presentazione da parte della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen della proposta di una direttiva sulla trasparenza salariale per garantire che nell’Unione Europea donne e uomini ricevano la stessa retribuzione per uno stesso lavoro.
Sarà il 2022 a dirci se i datori di lavoro con almeno 250 dipendenti, resi noti i dettagli salariali, rivaluteranno davvero le retribuzioni qualora risultasse un gender pay gap di oltre il 5% senza cause oggettivamente neutre dal punto di vista del genere.
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È chiaro quindi che gli ultimi 12 mesi hanno suggerito da una parte un ripensamento delle metodologie di lavoro, grazie soprattutto alla diffusione massiccia di smartworking e lavoro ibrido in generale, e, dall’altra, una riflessione quasi obbligata sulle differenze di genere.
Il mondo del lavoro è in subbuglio tanto sul fronte produttivo, quanto su quello culturale. I periodi di svolta come quello che stiamo vivendo consentono di mettere sul tavolo più di un ragionamento, di sparigliare le carte e di ridistribuirle con più efficacia.
Vediamo quindi insieme quali sono i 5 trend HR che ci aspettiamo per il prossimo anno: 2022 non ti temiamo!
Negli USA quel fenomeno che da qualche mese tiene banco, e non solo oltre oceano, lo hanno chiamato The Great Resignation: in Italia lo tradurremmo – non proprio letteralmente – con “La Grande Fuga (dal lavoro)”.
Le persone - giovani e meno giovani – si dimettono, cambiano rotta, cercano un percorso che meglio si adatti ai loro valori, riscoperti o scoperti ex novo che siano.
Se per le nuove generazioni questo ha a che fare soprattutto con una questione di mancato allineamento al purpose aziendale (non per niente si sta coniando, dopo la Y, la X e la Z, anche la definizione di Generazione P, ossia Generazione Purpose), per chi ha qualche anno in più decidere di lasciare il proprio posto di lavoro va a braccetto con l’aver riconsiderato il peso della sfera professionale nella propria vita.
Le grandi dimissioni portano, almeno in Italia, anche a un grande paradosso: si liberano posti di lavoro che si faticano a ridistribuire nonostante il tasso di occupazione non sia confortante.
La situazione femminile, poi, è ancora più complicata: chi ha lasciato il lavoro per occuparsi di casa e famiglia, si ritrova ora a dover scendere a compromessi che il proprio settore professionale ancora difficilmente riesce ad assorbire. In poche parole: i posti volendo ci sono, ma le condizioni a cui vengono concessi non sono (più) conciliabili con i ritmi di vita con cui, soprattutto le donne appunto, devono ora misurarsi.
Va da sé che visto l’andamento del 2021, il 2022 dovrà essere per l’HR l’anno della retention, cercando quindi di pensare a come trattenere i talenti in azienda, pensando alla produttività, certo, ma anche a esigenze di benessere che le persone non sono (più) disposte a nascondere.
Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), già approvato dalla Commissione Europea, prevede una serie di investimenti e interventi legati alla gestione delle Risorse Umane, in particolare in relazione alla Pubblica Amministrazione, alle competenze digitali e al mercato del lavoro.
Questi tre aspetti risultano legati l’uno con l’altro:
Alla luce della Great Resignation e, in generale, di un panorama professionale scombussolato da rinnovate esigenze aziendali e nuove necessità personali, è indispensabile che l’HR si concentri, come mai ha fatto finora, sui processi di attraction e retention dei candidati.
Questo si concretizza in quello che in gergo viene chiamato Business to Candidate, ovvero la sinergia strategica e operativa dell’HR e del marketing per trovare prima e trattenere poi i talenti migliori per la realtà aziendale.
Ci si aspetta quindi che Candidate Personas, Value Proposition e Candidate Journey diventino quotidianità per chi si occupa di Risorse Umane: non si tratta semplicemente di saccheggiare il vocabolario del marketer, quanto di fare propri alcuni pilastri su cui il marketing si fonda.
Le Risorse Umane devono, in poche parole, essere in grado di “vendere” bene l’azienda ai potenziali candidati e, nello stesso tempo, mantenere e rinnovare le promesse valoriali (non intese solo dal punto di vista economico) con chi in azienda ha già fatto il suo ingresso.
Se parliamo di valori non possiamo non parlare di sostenibilità. Soprattutto le nuove generazioni, ma anche i Millennials non sono da meno, basano ora le proprie scelte, carriera inclusa, sull’aderenza a un sistema valoriale di riferimento dove l’impegno ecologico è tra le priorità.
Oggigiorno, quindi, per un’azienda risulta fondamentale impegnarsi in tal senso e promuovere strategicamente questo costante commitment proprio in ottica di employer branding.
Sempre più persone, infatti, vedono il tema ambientale come una vera e propria variabile di scelta del datore di lavoro, di fidelizzazione e fattore di soddisfazione per essere più produttivi e motivati.
Sempre in questo contesto ci si aspetta quindi che ci siano più opportunità per occupare posizioni relativamente nuove, come quella del Sustainability manager per esempio, in grado da una parte di soddisfare le esigenze di match tra carriera e valori di riferimento delle nuove generazioni e, dall’altra, di aiutare l’azienda a mantenere le promesse del proprio purpose.
Da approccio avveniristico al lavoro a condizione obbligata dalle contingenze, ormai è chiaro che lo smartworking è (e sarà) una delle normali condizioni di lavoro tra cui aziende e lavoratori potranno scegliere.
Il periodo di rodaggio, presente ancora in alcune situazioni, si concluderà quando aziende e lavoratori verranno a patti con nuovi metodi di gestione degli obiettivi (come la metodologia OKR per esempio), di valutazione delle performance (es. MBO) e di affidamento alla tecnologia, vista quindi non come un’alternativa, ma comunque l’unica alleata.
Va da sé che le aziende, uffici HR inclusi, che tarderanno ad adattarsi completamente al lavoro ibrido e quindi anche all’opportunità dello smartworking perderanno competitività sul mercato e saranno, probabilmente, protagoniste di ampi fenomeni di turnover.
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