Sul web gira un meme che dice “Data has a better idea”. Una frase che fa il paio con la più celebre “Without data, you’re just another person with an opinion”, citazione di William Edwards Deming, un famoso esperto di statistica americano.
Il punto è che senza una visione chiara dei dati (e di quel che possono significare), le persone tendono a prendere decisioni basandosi sull’istinto o sulle cosiddette teorie prevalenti. In questi casi si rischia di agire focalizzandosi sui propri bias o comunque su falsi presupposti.
Per questo motivo anche nell’ambito delle HR è necessario settare degli obiettivi e valutarne le performance in modo tale che la loro misurazione possa risultare incontrovertibile.
In questo articolo vediamo quindi insieme quali sono i KPI delle HR e quali tra questi sono importanti nella valutazione complessiva del business.
- Caratteristiche dei KPI
- KPI vs OKR
- I KPI per le HR
- Esempi di KPI per le Risorse Umane: cosa è importante misurare?
1. Caratteristiche dei KPI
Smarchiamo subito la definizione di KPI, acronimo di Key Performance Indicator, ossia tutte quelle metriche che servono a misurare le prestazioni di un’attività o di un processo.
Chi lavora nel marketing e nelle vendite ha una certa dimestichezza con i KPI sin dai banchi di studio o comunque di introduzione alla propria professione, ma anche chi come noi lavora nelle HR ha ormai familiarizzato non solo con questo termine, ma anche con l’importanza che riveste la definizione, prima, e la misurazione, poi, delle performance utili a valutare la bontà e il successo (o meno) di una qualsiasi iniziativa in ambito risorse umane.
Perché un KPI sia effettivamente tale è necessario che sia S.M.A.R.T., vale a dire:
- specifico, ossia tangibile, comprensibile, limitato a un singolo aspetto;
- misurabile che significa che può essere tradotto in numero, quindi valutabile oggettivamente. Se questo non è possibile, allora non si tratta di un KPI;
- achievable (raggiungibile): gli obiettivi devono essere realistici. È necessario porsi delle mete effettivamente arrivabili. Questo comporta la necessità di un’analisi del terreno di partenza estremamente “cruda”, capace di mettere in luce gli ostacoli, già presenti o che probabilmente potranno emergere nel corso del breve-medio-lungo periodo;
- rilevante: la metrica che si prende in considerazione e che quindi si misura deve avere rilevanza strategica o operativa. La domanda che ci si deve porre è: se quel che vado a misurare non ha “senso” nell’economia della mia attività, perché lo sto misurando? Se la risposta è vaga o non pervenuta, occorre mollare il colpo e passare ad altro;
- time-bound (definito nel tempo): l’obiettivo deve avere una scadenza, così che la performance possa essere misurata in relazione al tempo impiegato per ottenerla.
I KPI devono quindi avere sempre queste caratteristiche: aiutano non soltanto nel determinare cosa è effettivamente un indicatore di performance e cosa invece non lo è, ma suggeriscono la valutazione obiettiva e concreta dei risultati delle attività messe a sistema.
2. KPI vs OKR
Oltre a definire il nostro territorio di azione, occorre mettere i puntini sulle i e comprendere la differenza che intercorre tra KPI e OKR. Ne avevamo già ampiamente parlato qui, ma facciamo un recap che serve tanto a chi legge, quanto a chi scrive.
Teniamo ovviamente buona la definizione di KPI che abbiamo dato al paragrafo precedente e aggiungiamo che, oltre a essere S.M.A.R.T., devono avere perfetta coerenza con la propria attività e l’ambito applicativo (che significa, banalmente, che un KPI può essere rilevante in un settore e totalmente trascurabile in un altro).
Per gli OKR invece occorre mettere in ordine le informazioni.
L’acronimo significa, in questo caso, Objective and Key Results, e indica una metodologia organizzativa che si basa da un lato sull’objective, cioè lo scopo che si vuole raggiungere, e dall’altro sui key results, ovvero le azioni da intraprendere per raggiungere il suddetto obiettivo. In altri termini, l’objective è il “what”, il “cosa” vogliamo ottenere, mentre i key results sono il “how”, il “come” arriviamo a destinazione.
Gli OKR rispondono con un approccio bottom up alle domande legate a ogni metodo di lavoro. Partono dalla fine, quindi dall’obiettivo ultimo, e risalgono la china per direzionare le specifiche azioni di ogni individuo coinvolto nel processo, compresa la definizione delle priorità e delle migliori modalità per farne fronte.
Di conseguenza ciò che è importante in una metodologia di lavoro che si basa sugli OKR non è il fatto di dover raggiungere un risultato, ma il come lo si raggiunge. Le persone sono in questo contesto parte attiva dell’obiettivo stesso e la strada che percorrono per arrivare alla meta rappresenta essa stessa un traguardo.
Attraverso i KPI, invece, siamo in grado di valutare la performance di un progetto/di un’attività/di uno specifico aspetto del business e di identificare eventuali problematiche e criticità.
KPI e OKR non si escludono a vicenda, ma, anzi, possono essere utilizzati in modo complementare: se i KPI ci servono per misurare le performance e i risultati dei processi in essere, gli OKR ci permettono di partire da un obiettivo e di impostare la strategia per raggiungerlo, ci orientano a un miglioramento complessivo dei processi in ottica di promozione del cambiamento.
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3. I KPI per le HR
Tornando a parlare di KPI contestualizzandoli nell’ambito delle HR, è opportuno capire prima di che cosa si tratta nello specifico e, altrettanto dettagliatamente, quali devono essere le caratteristiche di questi indicatori perché possano essere effettivamente considerati tali.
I KPI per le HR sono metriche utilizzate per valutare quanto le risorse umane stiano contribuendo nell’economia di funzionamento dell’intera organizzazione.
Questo significa, in poche parole, che un KPI in questo ambito misura la capacità delle risorse umane di ottenere quei risultati che ci si era prefissati proprio in fase di strategia HR. Non solo: perché abbiano davvero senso, questi indicatori devono essere in qualche modo correlati (anche) a più ampi obiettivi di business.
In un report di qualche tempo fa, Wayne Eckerson ha elencato le caratteristiche dei (buoni) KPI per le HR. Le riassumiamo di seguito:
- scarsi: conviene concentrarsi su poche metriche, quelle essenziali. La regola aurea in questo caso è: meno è meglio.
- sondabili: è necessario essere in grado di andare a spaccare il capello in quattro, come si suol dire. L’indicatore deve quindi essere “spacchettabile” così da analizzare ogni sua componente e, da questa valutazione, capire come migliorare processi e risultati;
- semplici: se i KPI non sono facilmente intuibili, difficilmente chi ci si deve concentrare riuscirà a capire quali sono gli obiettivi da raggiungere;
- perseguibili: è vero che i KPI delle HR devono essere in qualche modo collegati a quelli di business, ma questo non significa che siano tra loro sostituibili. Di conseguenza l’obiettivo in capo alle risorse umane deve essere effettivamente raggiungibile entro il proprio ambito di competenza;
- assegnati: ogni KPI deve essere assegnato a un responsabile che, a vario titolo, risponderà del successo o del fallimento nel raggiungimento del risultato sperato;
- correlati: i KPI devono essere collegati all’outcome desiderato (per esempio un macro-obiettivo di business): questo consente di capire come le HR possono concorrere, per quel che è di loro competenza, all’attività dell’organizzazione;
- allineati: i KPI devono essere gli uni allineati agli altri. Non devono indebolirsi a vicenda e non devono nemmeno sovrapporsi. L’obiettivo è avere un “pacchetto” di indicatori che convive in armonia.
4. Esempi di KPI per le Risorse Umane: cosa è importante misurare?
Arrivati a questo punto dovrebbe essere chiaro perché è importante impostare sin da principio dei KPI, quali caratteristiche devono avere e soprattutto come sono definibili quelli specificatamente relativi alle risorse umane.
Non ci resta quindi che cercare di elencare le metriche che è importante prendere in considerazione prima e misurare, poi, nell’ambito delle HR. Va da sé che ogni organizzazione avrà le sue priorità e che non per tutte sarà necessario porre attenzione su tutti i KPI che seguono.
- Tra i KPI delle HR quello dell’assenteismo lavorativo viene sempre elencato per primo.
Forse anche perché da questo, in qualche modo, derivano quelli successivi. Questo indicatore aiuta a prevedere le assenze – sulla base di quelle passate – e quindi i possibili problemi operativi all’interno dell’azienda.
È un KPI che ne contiene in realtà due: il tasso di assenteismo (ossia la proporzione tra giorni di assenza e giorni lavorati per ciascun dipendente) e il costo di assenteismo, che tiene in considerazione lo stipendio lordo della persona, i fee necessari a coprire la sua assenza ed eventuali costi sostenuti per rimpiazzarla. - La talent retention è un altro indicatore fortemente preso in considerazione.
Per calcolarla si mettono in relazione la quantità di persone che sono entrate in azienda in un determinato periodo e quella di chi invece, nello stesso lasso di tempo, l’azienda l’ha lasciata (o al contrario ci è rimasta: dipende da come si vuole leggere il dato).
Alcune organizzazioni, al posto di calcolare la retention, si concentrano invece sul tasso di turnover che a sua volta può essere volontario, ossia guidato dai dipendenti, oppure non desiderato e che si basa quindi sul calcolo della percentuale delle persone di “valore” che hanno lasciato l’azienda, creando non solo un danno quantitativo, ma anche qualitativo.
Chi si concentra sul turnover, in ogni caso, lo dovrebbe fare considerando non tanto l’azienda nel suo insieme, quanto prendendo in considerazione le singole unit e i “movimenti” che si registrano al loro interno. Questo consente di avere una visione più precisa dei talloni d’Achille dell’azienda. - A proposito di movimenti, un altro KPI importante è quello che valuta il tempo speso in una stessa posizione.
Abbiamo intervistato diversi professionisti per i nostri report sull’andamento del mondo del lavoro in industry differenti (trovi le interviste cliccando sulle specifiche industry) e sono per la maggior parte concordi nell’affermare che quel che interessa alle persone che entrano in azienda – indipendentemente dalla loro seniority – è la visione di un percorso di crescita, lineare o, perché no, anche trasversale rispetto al punto di ingresso.
Di conseguenza la valutazione del tempo medio speso in una stessa posizione consente di capire se è necessario prevedere nuove opportunità per le persone che popolano un’organizzazione, scongiurando così eventuali malumori che potrebbero portarle a cercare altri lavori, all’esterno dell’azienda. - Collegato al KPI di cui sopra, c’è sicuramente il tasso di promozione interna che misura quindi quante persone già presenti all’interno dell’azienda sono state promosse.
Oltre a essere un mero dato quantitativo, questo indicatore consente di comprendere se l’organizzazione sia stata in grado – o meno – di favorire il trasferimento delle competenze da lavoratori senior a professionisti più “giovani” affinché questo know-how non andasse perso, ma rimanesse “in-house” concorrendo, nello stesso tempo, a costruire percorsi di crescita individuale di valore. - La formazione del personale.
Benché a primo avviso sembri tutto fuorché un KPI, l’aspetto formativo e migliorativo delle competenze delle proprie persone è effettivamente misurabile, in un lasso di tempo preciso e può avere delle conseguenze (si spera positive) sull’andamento del business.
Considerare questa come una delle metriche da misurare consente davvero di alzare l’asticella sempre più in alto e, potenzialmente, di migliorare considerevolmente le performance di business nel loro insieme. - Infine, le survey di cosiddetta benefit satisfaction aiutano l’azienda a comprendere qual è il tasso di gradimento (di soddisfazione, per essere letterali) da parte dei lavoratori nei confronti dei benefit che l’azienda mette a loro disposizione. L’analisi critica di questa metrica è utile per prevenire un alto tasso di turnover e sostenere invece una buona retention.
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