Per Marina Beretta, traduttrice editoriale, “So di non sapere” è la locuzione che chiunque faccia il suo lavoro dovrebbe ricordarsi sempre: più che un monito, un prezioso promemoria per non smettere mai di incuriosirsi e di approfondire e per non fermarsi a quel che si crede di conoscere già.
La vita di chi traduce, ce lo ha già ricordato Valentina Ballardini, la ghost writer della quale hai letto l’intervista qualche giorno fa, è un’esistenza professionale che viene spesso rintracciata solamente sul frontespizio di un libro.
Ma, poco a poco, sta letteralmente guadagnando posizioni: piccole conquiste che hanno il sapore di grandi vittorie e alla fine di questa intervista Marina ci spiega perché.
Marina, come sei arrivata a occuparti di traduzione editoriale?
Il mio percorso di formazione è stato in qualche modo guidato dai consigli della mia famiglia. Mia mamma, in particolare, al termine del liceo linguistico mi spinse a frequentare la scuola di interpreti e traduttori che mi portò prima a una fase di insegnamento e poi, appunto, alla traduzione.
Diventare traduttrice non è stato un passaggio automatico: come molte professioni ha avuto bisogno di essere coltivata e costruita. Nonostante si sia effettivamente concretizzata rapidamente, seppur in sordina, ho necessitato poi di qualche tempo per consolidarla come mia unica professione.
Pur avendo tradotto anche testi letterari, mi sono sin da subito concentrata soprattutto sulla traduzione editoriale e da moltissimo tempo lavoro principalmente nell’ambito dell’editoria d’arte.
Per diversi anni ho avuto uno studio editoriale con altre due socie, una grafica e una proofreader. In quel caso il nostro lavoro era organizzare e coordinare l’intero processo che ruota intorno alla pubblicazione di un libro: si trattava quindi di vederlo nascere, letteralmente, e portarlo poi sul mercato.
Negli ultimi anni sono tornata a occuparmi di traduzione come freelance e ho però ripreso anche a insegnare. Sono infatti docente universitaria di traduzione: è un “percorso nel percorso” che amo moltissimo.
Qual è il rapporto che un traduttore ha con il suo committente?
Nel mio caso il committente è, nel 90% delle volte, la casa editrice. Può capitare – ed è prassi soprattutto nell’ambito della traduzione letteraria – di lavorare infatti anche con le agenzie: in quel caso tra traduttore e cliente finale (la casa editrice) esiste un mediatore, nella figura dell’agente letterario.
Eliminando la mediazione va da sé che i passaggi per la realizzazione di un progetto editoriale si asciugano: sembra poca cosa, ma in realtà non lo è affatto.
La genesi di un libro, prima che arrivi sul mercato, è dettata infatti dall’impostazione di un retrotiming precisissimo. Ogni passaggio ha quindi il suo peso, soprattutto in termini di tempo.
Per semplificare possiamo dire che un libro è di fatto considerato pronto quando viene mandato in stampa ed è lo stampatore – per sua esperienza e presenza nel settore – a consigliare quali debbano essere i tempi corretti affinché si possa effettivamente uscire sul mercato. Stilare un calendario “al contrario” permette così di determinare quanto tempo ciascuna parte coinvolta nel progetto editoriale avrà a disposizione per fare il suo, traduttore compreso.
Di conseguenza, pur essendo il nostro un lavoro che di meccanico ha ben poco – anche se non sembrerebbe – abbiamo il diktat di stare tassativamente nei tempi che ci vengono indicati, pena far subire dei ritardi a tutta la filiera e quindi, anche al lancio sul mercato del libro a cui si sta lavorando.
Va da sé che il rapporto con l’editore, prima ancora di basarsi sulla garanzia di un output di qualità, passa attraverso la disponibilità nel poter “stare nei tempi” prestabiliti.
Poi si tratta ovviamente di un rapporto basato sulla reciproca conoscenza professionale, fatta di progetti condivisi e, ovviamente, di soddisfazione.
Noi traduttori siamo per la maggior parte dei freelance: vale quindi anche in questo caso la regola non scritta per cui se un cliente si trova bene con te una volta ti chiamerà quella successiva (e così via) e viceversa.
Inoltre, soprattutto nell’ambito della traduzione editoriale, la qualità del lavoro svolto è spesso direttamente proporzionale al livello di conoscenza dell’argomento che si sta trattando: l’attività di un traduttore è di fatto quella di una riscrittura che risulta essere quanto più semplice, autorevole e coerente con il testo originale tanto più è ampia la familiarità con il tema stesso.
In questo senso, quindi, è come se il rapporto tra editore e traduttore si verticalizzasse su uno specifico tema o comunque su un macro-contesto di riferimento.
Il committente in questi casi è il primo a voler consolidare nel tempo un rapporto di collaborazione: l’approfondita conoscenza di un argomento da parte del traduttore è una situazione win-win per tutti. Da una parte l’editore ha la sicurezza di potersi rivolgere – ogni volta che ne avrà bisogno – a una persona già preparata e, dall’altra, il traduttore non necessita di “farsi una cultura” da zero su quell’argomento.
Spesso i temi ricorrenti nel nostro lavoro diventano poi anche delle vere e proprie passioni: penso per esempio al mio caso, sia per quel che concerne l’arte, sia per quel che riguarda l’enologia.
Oppure, in situazioni più specifiche, sono il pretesto per verticalizzarsi e specializzarsi ancora di più. Chi, per esempio, si occupa di traduzione di testi medici non può fare affidamento solo sul know-how acquisito tramite l’editore o sulla propria esperienza, ma necessita di frequentare scuole che permettano una conoscenza approfondita e reale delle tematiche indipendentemente dal fatto di doverne tradurre dei testi.
In termini prettamente più pratici, invece, il testo del traduttore, una volta terminato, torna ovviamente nelle mani dell’editore che, nella figura del redattore, lo revisiona.
Nell’ambito della letteratura ogni modifica apportata alla traduzione, anche la più piccola, deve essere vagliata e approvata dal traduttore che viene considerato alla stregua di un autore e pertanto ha l’ultima parola sul testo che firma.
Nella traduzione editoriale le maglie sono effettivamente più larghe: le modifiche che vengono fatte sono spesso solo di forma e poco di sostanza, ma per correttezza professionale il traduttore dovrebbe comunque approvare la versione del testo revisionata dalla redazione e pronta quindi per la stampa.
Dovendo fare un lavoro di riscrittura, il traduttore può essere considerato uno scrittore?
Può essere considerato uno scrittore nella misura in cui non è semplicemente necessario che sappia le lingue (perlomeno quella di partenza e quella di arrivo del testo che sta lavorando), ma è fondamentale che abbia delle ottime capacità di scrittura.
Il traduttore deve quindi saper scrivere affinché sia in grado di comprendere, interpretare e riprodurre il tono, il registro e il mood del testo di partenza.
Questo, in poche parole, significa riproporre il testo originale nella lingua di arrivo riproducendo esattamente le espressioni della lingua di partenza. Non si tratta di azzeccare le parole giuste, quanto invece di formulare prima singole frasi e poi libri interi affinché nulla del testo scritto in origine venga perduto.
È un’operazione molto complessa soprattutto quando la distanza tra chi scrive e chi traduce non è solamente linguistica, ma anche culturale o più semplicemente “di pensiero”.
Ognuno di noi ha infatti i suoi mondi (qualcuno li ha chiamati moltitudini) e ognuno di noi ha il suo modo di riproporli agli altri. Il traduttore deve in qualche modo mettersi nella condizione di vivere, seppur superficialmente, queste moltitudini e riproporle, nella sua madrelingua, agli altri.
Ciò che però differenzia il lavoro dello scrittore da quello del suo traduttore è l’apporto creativo: quando leggiamo, per esempio, un libro in italiano tradotto dall’inglese e pensiamo quanto sia “bello” dovremmo fare i complimenti all’autore per la storia che ha creato e al traduttore per come è stata scritta.
A onor del vero un testo di partenza ben formulato è un vantaggio per chi deve tradurlo così come il contrario.
Trovi corretto restituire a chi si occupa di traduzione una visibilità pubblica che per tanto tempo è stata negata?
Sì, ma non tanto per la visibilità pubblica in sè, quanto invece per un riconoscimento professionale in termini di tutela sociale e fiscale.
Qualsiasi azione che punti a far emergere figure professionali che spesso lavorano dietro le quinte è utilissima a far sì che ce ne si interessi sotto una prospettiva più ampia, fatta di diritti e di tutele, appunto.
Non nego, però, che anche il riconoscimento pubblico ha (o potrebbe avere) il suo perché.
Così come la Legge n. 633 rende obbligatorio sin dal 1941 l’inserimento del nome del traduttore all’interno del libro e del testo tradotto, ritengo che vista l’era digitale che stiamo vivendo si dovrebbe fare un passo in avanti e rendere possibili, perlomeno sugli e-commerce di vendita di libri (Amazon, Ibs e simili), le ricerche non solo per titolo e nome dell’autore, ma anche per nome del traduttore.
Siamo considerati autori, dalla normativa vigente e dagli editori per cui lavoriamo: sarebbe fantastico poter essere tali anche per chi, tutti giorni e spesso inconsapevolmente, ci legge.
6 professioniste che “lavorano dietro le quinte”, mettendo competenze e know how a disposizione di aziende e persone senza avere visibilità pubblica.
Leggi le loro storie: