Employee retention: come tenere sotto controllo la crisi del turnover.

    Se in amore vince chi fugge, sul lavoro ha la meglio chi riesce a far restare. In un periodo storico caratterizzato dalle grandi dimissioni, la prossima sfida che aziende e HR si troveranno ad affrontare è infatti la crisi del turnover che, rispetto al passato, sarà più frequente e, soprattutto, più rapida.

    Insomma: non si riesce proprio mai a stare tranquilli. Risolto un problema (o quasi), ecco che ne spunta un altro. Forse, allora, sul lavoro vince chi riesce a essere letteralmente resiliente (e questa volta senza alcuna retorica).

    Nei paragrafi che seguono concretizziamo la resilienza dell’HR in due parole, employee retention, capendo insieme cosa significa e quali sono, praticamente, le strategie da mettere in campo per trattenere i talenti, se non una volta per tutte, per il tempo più efficace ed efficiente possibile.

     

    1. Cos'è l'employee retention
    2. Come migliorare l'employee retention
    3. Strategie di employee retention per il 2023

     

    1. Cos'è l'employee retention

     

    Per definizione l’employee retention è la capacità di un’azienda di trattenere al suo interno i talenti. Non si basa solo su dati numerici e statistici, ma fa riferimento (anche e soprattutto) a una serie di politiche e iniziative che hanno lo scopo di aumentare il benessere delle persone all’interno delle organizzazioni per scongiurare la loro (eventuale) voglia di andare altrove.

    Non si deve essere in grado di cantare come le sirene per trattenere un talento in azienda, ma è comunque sicuramente da prevedere un’alta attenzione nei confronti delle proprie persone con l’obiettivo di trasformarla nella capacità di dare loro tutto quel che serve (giustamente) per farle sentire soddisfatte, a loro agio e “benvenute”.

    Secondo varie ricerche, infatti, bassa retribuzione, cattivo rapporto con colleghi e manager, mancanza di motivazione così come scarsa visibilità del percorso di carriera, poca flessibilità concessa e assenza di riconoscimenti e gratificazione sono le principali motivazioni che spingono una persona a “switchare” azienda o, addirittura, percorso professionale. 

    In tutti questi casi risulta evidente che a fare la voce grossa è il contesto esterno più che quel che si muove dentro un individuo: si cambia lavoro perché, per un motivo o per l’altro, l’azienda non ci corrisponde. Proprio come può succedere in una relazione personale dove, quando non ci si capisce più, ci si allontana.

    In questo contesto a studiare la relazione tra employee retention e motivazione è stato Frederick Herzberg che con la sua teoria “Two-factors” ha evidenziato che a influenzare l’employee retention sono due tipologie di fattori: quelli motivazionali e i cosiddetti fattori di igiene

    • I primi sono strettamente relativi alle caratteristiche del lavoro in sé (es. responsabilità, corrispondenza tra lavoro e aspettative personali, opportunità di crescita);
    • i secondi, invece, sono rappresentati dai bisogni fisiologici che un lavoratore si aspetta vengano soddisfatti dall’azienda in cui lavora (per esempio condizioni e sicurezza del luogo di lavoro, salario e così via).

    Lato azienda l’employee retention è una sorta di “garante”: fa infatti sì che il turnover non pesi troppo sulle spalle dell’organizzazione. Più che uno sherpa che libera dal peso è un prestigiatore che lo fa proprio sparire. 

    Una manna dal cielo per le aziende, visto che il turnover non influisce solo sulla loro reputazione (“se se ne vanno tutti, un perché ci sarà” ovvero “perception is reality”), ma anche sui conti.

    Sostituire le persone che se ne vanno non si risolve in un cambio di intestazione sul cedolino paga, ma comporta una serie di esborsi legati al recruiting dei nuovi profili e alla loro valutazione, così come alla formazione dei nuovi arrivati e al costo non prettamente monetario, ma sicuramente oneroso, che comporta quella di terra di mezzo che inizia con il passaggio di consegne e termina quando una persona si sente davvero parte dell’azienda (in tutto una media di 12 mesi, ne abbiamo parlato qui).

    Poche righe fa abbiamo scritto che l’employee retention non è solo matematica. Lo sottoscriviamo nuovamente, ma non possiamo ignorare che esiste un tasso, l’employee retention rate, che calcola, ogni fine dell’anno, qual è la proporzione tra persone rimaste in azienda e quelle che se ne sono andate

    In ambito HR si considera alto – e quindi difficilmente sostenibile – un turnover rate che supera il 15% e quindi, di conseguenza, verrà considerato negativo un employee retention rate minore o uguale a 85%. 

    Giusto per chiudere questo paragrafo con qualche dato in più, ci basti sapere che secondo lIndagine sul Lavoro 2021 condotta da Confindustria il tasso di turnover registrato l’anno scorso in Italia era del 10,2%. 

    Se ci ricolleghiamo alla nostra premessa, nella quale paventavamo un peggioramento della situazione attuale, risulta chiaro che siamo sul filo di lana di una vera e propria crisi del turnover, confermata anche dal Microsoft Work Trend Index 2022 che ci dice che il 41% della forza lavoro globale sta valutando un cambio di lavoro nel prossimo anno.

    Alla luce di tutto questo possiamo solo consigliarti di rimboccarti le maniche (e noi con te): abbiamo infatti solo appena iniziato a darci da fare.

     

    2. Come migliorare l'employee retention

     

    Se il fine ultimo è abbassare il turnover rate e alzare quindi il tasso di employee retention, risulta necessario migliorare la permanenza delle persone in azienda attraverso iniziative e politiche volte ad aumentare il benessere, reale e percepito, all’interno dell’organizzazione.

    Si inizia da principio, fin dalle fasi di recruiting. Una ricerca di profili da inserire in organico frettolosa e poco specifica può indurre entrambe le parti, azienda e candidato, a prendere una decisione sull’onda dell’entusiasmo o, peggio ancora, della disperazione. Vale insomma lo stesso principio per il quale non si dovrebbe mai fare la spesa quando si è affamati o non si dovrebbe mai compiere una scelta importante quando il proprio stato d’animo è estremizzato. Sembrano un po’ i rimedi della nonna versione “life guru”, ma tant’è: nei cliché alberga spesso la verità. 

    Al netto di una scelta calma, ponderata e “sincera” su chi far entrare in azienda - che a sua volta avrà avuto tutti gli strumenti e il tempo per valutare l’organizzazione-, ci sono politiche e iniziative che possono servire per migliorare l’employee retention, soprattutto quando i talenti sono in azienda da un po’ e l’ultima cosa che si vuole è farli migrare altrove.

    Per schematizzare, possiamo dire che occorre pensare a tre cose: i valori che si percepiscono, quelli che si “vedono” e quelli che è plausibile aspettarsi dal futuro. Come? Ecco degli spunti:

    • Investire nella cultura aziendale

      La cultura aziendale è impalpabile, eppure estremamente presente. Tutto quel che esiste, si muove e gravita internamente e intorno all’azienda è frutto – o comunque è influenzato – dalla company culture. 

      Prevedere più risorse per la valorizzazione della cultura aziendale significa, tra le altre cose, migliorare la comunicazione interna (e di conseguenza far sentire le persone più libere di condividere necessità e visioni) e quindi creare quello spirito di team che lungi dall’essere semplicemente una relazione cameratesca, è ciò che consente ai lavoratori di guardare davvero nella stessa direzione, impegnandosi insieme per il raggiungimento di un obiettivo.

    • Migliorare il welfare aziendale

      L’aumento del benessere dei lavoratori è spesso – anche – direttamente correlato all’accesso a una serie di benefici, molti dei quali possono in qualche modo influenzare in meglio il loro potere d’acquisto.

      Prevedere una politica di welfare aziendale che garantisca alle persone di poter avere benefit – monetari e non solo – oltre a quelli strettamente correlati allo stipendio, è indice di un’attenzione anche a necessità complementari dei propri lavoratori.

    • Offrire piani di crescita e carriera

      Da una parte la possibilità di accedere a corsi e iniziative di formazione permette alle persone di poter guardare in prospettiva le proprie attuali competenze che, appunto, non possono far altro che crescere.

      Dall’altra, condividere con i lavoratori i percorsi di carriera che si prevedono per ciascuno di loro permette alle persone di considerare quel che stanno facendo in azienda un viaggio verso una meta “migliore”, anche quando questa sarà all’interno proprio della stessa organizzazione.

     

    Al di là dei consigli “spicci”, va da sé che per migliorare l’employee retention è prima di tutto indispensabile capire quali sono le motivazioni che spingono le persone a lasciare un’azienda e quindi di conseguenza premere sull’acceleratore delle iniziative che possono compensare situazioni di particolare disattenzione

     


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    3. Strategie di employee retention per il 2023

    In uno scenario post-pandemico il livello dell’asticella delle strategie di employee retention si è alzato ancora di più. La soddisfazione che le persone capitalizzano dalla propria esperienza lavorativa è frutto di una partita giocata in un campionato dove a competere ci sono sempre più fattori: da quelli elencati dal buon Herzberg ad altri più in tendenza in questo momento storico, su tutti il worklife balance, per esempio.

    Le aziende e le direzioni HR devono quindi impostare un piano strategico che tenga conto sia di necessità “standard”, sia di bisogni acquisiti da uno scenario dapprima eccezionale e poi diventato la routine dei (nuovi) anni Venti.

    Vediamo quindi insieme un elenco (che non ha presunzione di esaustività) di strategie a garanzia di una buona employee retention:

    1. Garantire il worklife balance

      Non potevamo non partire da qui: il worklife balance è IL tema di quest’ultimo biennio ed è una delle motivazioni che ha spinto molte persone in tutto il mondo a rivedere i propri piani di vita e di carriera. 

      La letteratura ci dice però che già più di 10 anni fa iniziava a essere un argomento discusso e controverso: questa ricerca, condotta nel 2011 in Gran Bretagna, sottolineava come l’11% dei lavoratori intervistati avesse rifiutato una nuova opportunità lavorativa, migliorativa in termini economici e di carriera rispetto alla precedente, perché non in linea con la necessità di un equilibrio tra vita privata e professionale.

      Negli ultimi 10 anni possiamo affermare che sono successe cose che mai avremmo immaginato, che hanno sconvolto equilibri sociali e individuali: se quella stessa ricerca venisse riproposta ora siamo sicuri che la percentuale sarebbe esponenzialmente più alta.

    2. Prevedere un modello di lavoro ibrido

      Strettamente collegato al worklife balance c’è il tema del lavoro ibrido. La possibilità di scegliere se lavorare dall’ufficio o se farlo da remoto garantisce al lavoratore una flessibilità che si traduce, più o meno direttamente, in soddisfazione. Essere liberi, o percepirsi come tali, di impostare la propria routine lavorativa da ovunque si voglia (al netto delle eccezioni e di eventuali politiche aziendali) consente alle persone di organizzare la propria agenda, di vita e professionale, in modo quanto più vicino possibile alle proprie effettive esigenze.

    3. Il benessere, prima di tutto

      Stare bene, qualsiasi cosa significhi, è il primo passo per essere produttivi. 

      Per questo è necessario che le aziende promuovano il benessere dei propri lavoratori, ossia assicurino loro innanzitutto un luogo di lavoro a misura delle loro esigenze (ne abbiamo scritto anche in questo e-book) e successivamente prevedano attività a supporto del loro well-being, appunto.

      Le iniziative in questo senso possono essere tante, ma ci piace ricordare quella di LinkedIn che, nell’aprile del 2021, ha concesso ai suoi 15.900 lavoratori full-time una settimana di break pagato per aiutarli a contrastare un eventuale, e quanto mai realistico, rischio di burn-out.

    4. L’importanza del cultural fit

      Assumere per “competenze” non è più sufficiente. Assumere valutando le competenze (OK) e, soprattutto, l’aderenza valoriale delle persone alla cultura aziendale è, ora, “the only way”. 

      Perché se le competenze possono essere oggetto di miglioramento o di integrazione, beh il modo “in cui si è” rimarrà sostanzialmente sempre lo stesso. Inutile quindi illudersi di essere Michelangelo: il nostro scalpello non scalfisce alcun marmo, o se lo fa certo non è per realizzare un nuovo David. Siamo semplicemente persone che lavorano in azienda e che hanno il compito di cercare e selezionare altre persone che nella stessa azienda possano sentirsi a proprio agio, perché ne condividono, appunto, visioni e cultura.

    5. Incoraggiare la comunicazione 

      Un’azienda “aperta” è quell’organizzazione che accoglie riflessioni, feedback (positivi e negativi) e proposte (possibilmente realizzabili, ma, sai come si dice, non è sempre domenica). E lo fa con lo spirito di voler essere non un refugium peccatorum, ma un hub di opportunità.

      Tenere la porta sempre aperta (metaforicamente e, perché no, anche letteralmente) e dare alle persone la possibilità di esprimersi liberamente permette ai lavoratori di sentirsi accolti in un luogo che valorizza punti di vista, differenze ed esigenze. I valori aziendali devono quindi nutrirsi anche della cultura del feedback.

    6. Prevedere un programma di gratificazione

      Posto che la gratificazione sul lavoro non è – e non dovrebbe essere – solo economica, prevedere dei benefit monetari lungo il percorso professionale delle persone in azienda è sicuramente un incentivo da una parte all’ingresso dei talenti nell’organizzazione e, dall’altra, a una permanenza quanto più lunga possibile.

      I riconoscimenti possono però anche non essere economici: programmi strutturati di valorizzazione dei meriti ottenuti svolgono una funzione chiave nella costruzione e nel mantenimento di una relazione azienda-persone che va ben al di là del mero scambio competenze-stipendio.

    7. Costruire legami

      Si dice che le persone non lascino lavori, ma capi (manager) con cui non hanno feeling. 

      Forse non è sempre vero, ma è comunque molto più difficile abbandonare un luogo di lavoro dove si sono costruiti legami solidi, sinceri e piacevoli con i propri superiori e i propri colleghi di quanto non lo sia lasciare un luogo dove si sono instaurate relazioni aride e a “basso valore aggiunto”.

      È indiscutibile: una buona employee retention la si ottiene anche grazie alle relazioni che l’azienda è in grado di costruire

      Sì, perché se ci riallacciamo al punto 4) ecco che nella scelta delle persone da inserire in organico sarà fondamentale puntare su chi da una parte è in grado di creare un ambiente di lavoro sereno, di condividere una leadership gentile e inclusiva e su chi, dall’altra, ben si presta a essere davvero parte di un team, costruito sulla base di una relazione fiduciaria sincera.


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    Reverse è una realtà in continua evoluzione: come un gruppo di scienziati e ricercatori che giorno dopo giorno creano qualcosa di nuovo per migliorare e semplificare il mondo dell’Head Hunting e l’attività di chi si occupa di HR.
    Alessandro Raguseo, CEO