Reverse mentoring: la gen z in cattedra

    Il reverse mentoring, in poche parole, è il mentoring al contrario: a “imparare” non sono più solo i giovani talenti e a “insegnare” non sono più solo i manager e le persone senior, ma l'azienda cresce anche grazie alle competenze, più o meno consce, delle giovani generazioni, come la Gen Z.

    Hanno, al momento, tra i 12 e i 26 anni e sono meno superficiali di quel che si possa pensare. Diversamente dalle generazioni precedenti hanno un altro passo, che è più veloce quando si tratta di tecnologia, apprendimento e scoperta, e più lento quando a essere coinvolti sono altri meccanismi, più intimi ed emotivi.

    Sono il presente e saranno il futuro della nostra società, mondo del lavoro incluso.

    Vediamo insieme come si inseriscono all’interno di un’azienda che cambia e all'interno di un rapporto con un management pronto a farsi influenzare (si spera!).

    1. I benefici del reverse mentoring e come organizzarlo
    2. Reverse mentoring per ridurre il gap generazionale 
    3. Un caso di successo
    4. Sviluppare un piano di reverse mentoring: gli step operativi
    5. Il mentoring in azienda: come si è sviluppato nel tempo

     

    1. I benefici del reverse mentoring e come organizzarlo

    Andiamo subito al sodo: perchè un HR Manager dovrebbe valutare di inserire un piano di reverse mentoring all'interno della propria azienda?

    Cominciamo con le brutte notizie: i vantaggi non sono misurabili tanto nel breve periodo, ma sono invece estremamente interessanti se il punto di vista dai quali li si considera comprendono anche il futuro. Coltivare, tramite una formazione soprattutto esperienziale, i talenti di oggi consente all’azienda di organizzare una vera pipeline di leadership del futuro, andando a lavorare soprattutto sulle competenze più soft.

    Per schematizzare potremmo dire che il reverse mentoring consente all’azienda:

    • di tenere i talenti coinvolti, di svilupparli e di intercettarne competenze e potenzialità;
    • di potenziare le capacità di leadership dei manager coinvolti come mentor nel processo formativo;
    • di sviluppare una cultura aziendale condivisa focalizzando l’attenzione di manager e talenti sull’atteggiamento di leadership che si vuole promuovere all’interno dell’organizzazione.

    I benefici aziendali ricadono quindi positivamente non solo sui mentee, ma anche sui mentor che tipicamente sono manager che ricoprono ruoli apicali o comunque individui che hanno maturato un’esperienza professionale in azienda tale da poter essere condivisa. 

    I mentor hanno quindi la possibilità di instaurare una relazione lavorativa e soprattutto umana che permette loro di arricchirsi. Questo consente, indirettamente, di portare in azienda una visione delle cose più ampia, che va via via integrandosi con quanto di positivo proviene da un rapporto di scambio reciproco.

    Da non dimenticare anche la possibilità per i manager di risultare più visibili all’interno dell’organizzazione: i mentor che mettono a disposizione le loro conoscenze e competenze sono più facilmente considerati come punti di riferimento aziendale grazie ai quali arricchirsi di know-how e nuove modalità di approccio professionale.

    Il mentoring, che può essere formale o informale anche a seconda del generale approccio aziendale, si può svolgere in varie modalità:

    • incontri one-to-one tra mentor e mentee: l’appuntamento faccia a faccia è la più classica delle forme di mentoring;
    • group mentoring: in questo caso la metodologia formativa coinvolge un gruppo di mentee accompagnato o da un unico mentor o da più figure di riferimento. L’obiettivo è far ricadere sul singolo partecipante il vantaggio del mentoring gestito da più persone;
    • peer mentoring: la relazione avviene in assenza di gerarchia (perlomeno limitatamente alle sessioni di mentoring) e lo scambio è quindi “alla pari”;
    • mentoring misto: si tratta di un mix tra la metodologia one-to-one e quella di gruppo;
    • mentoring a distanza: se fino a qualche tempo fa si trattava di un’opportunità in più, ci sentiamo di dire che attualmente, causa limitazioni pandemiche, si tratta ormai di un’alternativa diventata regola;
    • blended mentoring: un mix tra mentoring in presenza e remote mentoring.

     

    2. Reverse mentoring per ridurre il gap generazionale


    A parlare di reverse mentoring si inizia intorno al 1999 quando Jack Welch, allora CEO di General Electrics, chiese a 500 dei suoi top manager di trovare giovani risorse che potessero spiegare loro come usare Internet. Il tema era quello di riuscire a portare a bordo le generazioni più senior sulla barca dell’innovazione tecnologica che, oltre a invadere la sfera privata delle persone, iniziava a pervadere anche quella professionale.

    Anche se l'associazione del reverse mentoring con la necessità di competenze digitali è ancora una formula diffusa, l’obiettivo di questa metodologia non è più solo quello di condividere competenze digitali con le generazioni aziendali più senior.

    Introdurre la pratica del reverse mentoring permette infatti soprattutto di ridurre il gap naturalmente esistente tra persone che lavorano vicine ma che sono lontane in termini di età.

    Oggi nelle aziende convivono infatti quattro generazioni. Data la velocità dell'innovazione portata dagli ultimi decenni, è facile capire quando la comunicazione tra queste generazioni sia complessa. Boomer (nati tra il 1945 e il 1965),  Generation X (nata tra il 1965 e il 1980), Millennial (1980-1997) e Generazione Z (fino al 2010). Questi gruppi hanno vissuto situazioni culturali e sociali profondamente diverse e questo ha influito nel creare un’etica del lavoro, così come un mindset e un atteggiamento professionale quasi agli antipodi. 

    Trovarsi a vivere all’interno di dinamiche sociali e culturali differenti porta poi, quasi sempre, a delineare pregiudizi e stereotipi difficili da superare

    In questo contesto il reverse mentoring, al di là della condivisione di conoscenze “tecniche” e know-how strettamente connesso alla propria competenza professionale, permette, tanto per fare un esempio, di liberare i millennial dallo stereotipo che spesso Boomer e Generazione X hanno loro affibbiato, ossia quello di una generazione di viziati, egoriferiti e privi di motivazione. 

    La necessità quindi non è più solo quella di portare a bordo manager e leader sulla barca del digitale, ma anche di superare la divergenza generazionale e imparare a relazionarsi, a motivare e a coinvolgere i membri più giovani dei vari team.   

     


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    3. Un caso di successo

    Abbiamo capito quindi come il reverse mentoring sia tanto un approccio utile a uno scambio di competenze, quanto un meccanismo che permette di superare pregiudizi e stereotipi.

    Ma quali sono i benefici concreti di cui un’azienda può avvantaggiarsi una volta introdotto il reverse mentoring al suo interno? Vediamo un caso pratico che ha fatto scuola.

    Qualche tempo fa, Pershings, un’azienda americana che fornisce servizi e consulenza ad aziende che operano nel settore della finanza, ha rilasciato un’intervista all’Huffington Post per testimoniare il successo del suo programma di reverse mentoring. 

    L’azienda aveva infatti notato il disinteresse dei Millennial nell’essere impiegati nell’ambito dei servizi finanziari e la loro maggiore tendenza a lasciare il posto di lavoro, rispetto ad altre generazioni o comunque ai loro pari impiegati in differenti mercati. 

    Pershings, dopo l’implementazione del reverse mentoring, ha registrato un alto tasso di retention dei Millennial (97%) proprio dopo averli coinvolti in questo genere di attività. Considerando che le statistiche dicono che il 49% dei nati tra il 1980 e il 1997 desidera cambiare occupazione almeno una volta ogni 2 anni, il risultato ottenuto non può che essere soddisfacente.

    Questo caso dimostra chiaramente che il reverse mentoring può essere di grande aiuto nella talent retention e, allargando la prospettiva, può essere sfruttato come leva per un’attività di employer branding, presentandolo come uno dei benefit di cui i giovani talenti potranno usufruire una volta entrati in azienda.

    Questo ricade direttamente nella definizione della cultura aziendale: un’organizzazione che si occupa di costruire relazioni di valore tra le sue persone non può che posizionarsi in un cono di luce.

    Ecco altri benefici che porta il reverse mentoring, oltre a quelli di cui si è parlato fino a qui:

    • la costruzione di una cultura dell’apprendimento: l’azienda non è più solo un luogo dove lavorare, ma anche quello in cui apprendere, grazie a uno scambio orizzontale di nozioni, competenze e visioni;
    • lo sviluppo di competenze di leadership nelle persone più giovani: leader si diventa soprattutto grazie all’esperienza sul campo. Ma apprendere le doti di leadership da chi già le ha acquisite risulta ancora più vincente: è infatti il confronto e lo scambio continuativo a fare la differenza, in qualsiasi percorso di formazione;  
    • condividere prospettive differenti: come abbiamo detto, mettere a confronto generazioni diverse consente di far convergere punti di vista sociali e culturali che altrimenti rischierebbero di far nascere solo pregiudizi e mindset stereotipati;
    • una maggiore inclusività: gli esempi in questo senso sono svariati, ma su tutti ricordiamo il programma di reverse mentoring di PricewaterhouseCoopers che dal 2014 coinvolge oltre 120 millennial come mentor e circa 200 manager e partner in qualità di mentee, in ottica di avvicinare la generazione più senior alle esigenze di specifiche “nicchie”, etniche o di gender;
    • sviluppare capacità di comunicazione: se la prima ragione di fallimento dei programmi di reverse mentoring è la mancata priorità dei manager alla relazione, è però anche vero che quando questa viene correttamente coltivata permette un netto miglioramento nelle skill comunicative, sia lato mentor sia lato mentee;
    • condividere competenze digitali: è forse un beneficio ormai marginale, ma sicuramente ancora molto importante per alcune realtà che hanno necessità di digitalizzare quanto più possibile i processi e rendere quindi consapevoli di questo tutte le persone senior che ne sono coinvolte.

     

    4. Sviluppare un piano di reverse mentoring: gli step operativi

    Arrivati fino a qui non ci resta che concretizzare il tutto in un piano operativo ben strutturato. I 5 step fondamentali sono i seguenti:

    1) Delinea l’obiettivo del progetto

    Il purpose deve essere chiaro a tutti gli attori coinvolti: qual è lo scopo che l’azienda vuole raggiungere attraverso un piano di reverse monitoring? Una volta raggiunto, quali saranno i benefici di cui si potrà godere sul lungo periodo?

     

    2) Progetta il programma di reverse mentoring

    Avendo le basi, si può procedere con la parte di “design” rispondendo alle seguenti domande che chiaramente varieranno anche a seconda dell’obiettivo di massima e della tipologia di business:

    • chi parteciperà al programma?
    • I partecipanti al piano di reverse monitoring verranno selezionati dall’HR oppure potranno candidarsi spontaneamente?
    • In quali spazi – fisici o virtuali – verranno attuate le iniziative del piano?
    • Il programma sarà "always on" o avrà una data di inizio e una di fine?
    • Qual è il livello di coinvolgimento che ci si aspetta dai partecipanti, siano essi i mentor o i mentee?
    • Come potrà l'azienda monitorare i progressi dei partecipanti e quindi la buona riuscita del progetto?

     

    3) Recluta mentor e mentee

    Alla luce di alcune delle risposte di cui sopra, è possibile prevedere un programma di reverse mentoring chiuso (i partecipanti sono selezionati dall’azienda) o aperto (chiunque in azienda può chiedere di partecipare, previa eventuale accettazione dell’organizzazione).

    In questo secondo caso è possibile utilizzare un software per il mentoring che consente alle persone di mandare la propria application, compilando il proprio profilo con le informazioni richieste dall’azienda.

    La stessa cosa può essere fatta manualmente e in entrambi i casi il progetto può essere promosso formalmente attraverso canali interni.

     

    4) Abbina i mentor ai mentee

    È tutta una questione di (buon) matching: per questo è necessario, già a priori, decidere quale sarà la ratio da seguire per l’abbinamento di mentor e mentee.

    Tipicamente ci si basa sulle competenze del mentor e le si mette a confronto con le esigenze di miglioramento del mentee, senza trascurare ovviamente i tratti di personalità ed eventuali interessi comuni. 

    Non semplicissimo, ma sicuramente fattibile avendo ovviamente l'accortezza di superare eventuali favoritismi e, soprattutto, di evitare bias subconsci.

     

    5) Lancia e monitora il programma di reverse mentoring

    Ci siamo! Definita la strategia, progettato il piano, scelti e abbinati i partecipanti non resta che iniziare.

    Prevedere un kick-off strutturato può aiutare mentor e mentee a sentirsi parte di un vero e proprio progetto, comunicandone così l’importanza per l’azienda e la necessità di un impegno, non solo in termini di tempo.

    Qualsiasi sia l’obiettivo del programma, è opportuno pensare a delle modalità strutturate di feedback che i partecipanti possono condividere lungo il percorso

    Questo permette all’azienda di capire quale direzione sta prendendo il piano e a mentor e mentee di correggere il tiro qualora la loro relazione abbia preso una piega non costruttiva.

     

    5. Il mentoring in azienda: come si è sviluppato nel tempo

    Godiamoci ora un po' di storia. Dove nasce il mentoring?

    Nell’Odissea. Infatti Ulisse, in partenza per la guerra di Troia che lo terrà lontano da casa per lungo tempo, affida l’educazione militare e politica del figlio Telemaco all'amico fidato Mentore, figlio di Alcimo, uomo maturo e saggio di cui Ulisse ha piena fiducia. Mentore avrà poi un "endorsement" veramente eccezionale: quello della dea Atena. Infatti, ogniqualvolta Telemaco si troverà in difficoltà, la dea apparirà con le forme di Mentore, per dar lui conforto e consiglio.

    Nelle nostre aziende forse non possiamo avvalerci dell'aiuto divino, ma la mitologia non sbaglia facendoci riflettere su quanto sia arduo il compito di sviluppare una persona che si affaccia alla vita, tanto da necessitare veramente dei superpoteri di un dio!

    Nella società moderna il mentoring si è sviluppato e arricchito. E' nato anche il coaching, simile ma da non confondere:

    l'obiettivo del mentor è sviluppare il mentee attraverso molteplici tecniche, non solo la trasmissione di nozioni. Quindi via libera a storytelling, role playing, case study, partecipazione a eventi e iniziative di networking: la fantasia del mentor è un elemento chiave nel successo dell'iniziativa.

    Diversamente dal coaching, poi, l’attività di mentoring prevede che il mentor sia una figura interna all’azienda e che quindi, in qualche modo, intrattenga già una relazione gerarchica con i talenti che andrà a guidare. In questo scenario è fondamentale che mentor e mentee conoscano la propria posizione nella gerarchia della loro relazione e che la coltivino nel continuo rispetto delle proprie competenze, affidandosi e fidandosi l’uno dell’altro. Inoltre è ovviamente importante che un rapporto di mentoring si basi sulla fiducia e su una comunicazione chiara

    Il reverse mentoring è quindi un arricchimento del mentoring tradizionale

    l’organizzazione che prevede attività di reverse mentoring al suo interno ha la possibilità di sviluppare i talenti e allo stesso tempo dare ai manager nuovi stimoli, impegnandoli in questa attività. 

    Concludendo, il reverse mentoring non è una "trovata" degli ultimi tempi ma una strategia consolidata che in questi anni si sta rivelando un'arma efficacissima per gli HR Manager che si trovano a gestire un mondo del lavoro in cui quattro generazioni completamente diverse tra loro "duellano" quotidianamente sul campo di gioco aziendale.


    Il reverse mentoring può essere un'utile leva per una strategia di  Employer Branding vincente. Cerchi idee?

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    Reverse è una realtà in continua evoluzione: come un gruppo di scienziati e ricercatori che giorno dopo giorno creano qualcosa di nuovo per migliorare e semplificare il mondo dell’Head Hunting e l’attività di chi si occupa di HR.
    Alessandro Raguseo, CEO