Cos'è il South Working? Tre testimonianze per comprenderlo

    Negli ultimi mesi il modo di lavorare è cambiato drasticamente: abbiamo sentito parlare di telelavoro, di lavoro da remoto, poi di smart working e infine di south working.

    Ecco qualche testimonianza di chi ha lavorato dal sud Italia per capire se l'esperimento potrà funzionare.

    1. Introduzione
    2. Cos’è il south working?
    3. South working: tre testimonianze
    4. Conlcusione

     

    1. Introduzione

    Il south working è uno dei fenomeni più interessanti nati nell’era post-Covid: secondo uno studio di Cgil e Fondazione di Vittorio, i lavoratori da remoto sono passati da 500 mila a 8 milioni in pochi mesi. L’esigenza di abbandonare gli uffici ha innescato un cambiamento anche nel modo di “vedere” il lavoro e di vivere la propria quotidianità: il 75% dei lavoratori è disponibile a continuare a lavorare in smart working più giorni a settimana, anche consecutivi, mentre il 20% lavorerebbe da casa un giorno a settimana.

    Complice l’estate e l’allentarsi delle misure di prevenzione del contagio, la prospettiva di scappare dalle grandi città con famiglia e pc al seguito è stata troppo allettante per essere ignorata. Ed è così che le metropoli italiane si sono svuotate.

    È semplice intuire dove siano andati molti dei i lavoratori che fino a febbraio affollavano le strade di Milano, Torino, Roma: a casa, nel sud Italia. 

    Secondo il rapporto dello Svimez, in quindici anni (tra il 2002 e il 2017) sono state 2 milioni le persone emigrate dal Mezzogiorno. La necessità dell’ultimo periodo di lavorare o studiare da remoto ha incentivato molti lavoratori, studenti e famiglie a lasciare  la vita nel nord Italia, tendenzialmente più cara e frenetica, per fare ritorno nelle regioni d’origine. Secondo un’analisi effettuata da Casa.it, la ricerca di case durante il periodo estivo ha registrato una crescita a tre cifre rispetto all’anno precedente in alcune zone del sud Italia.

     

    2. Cos’è il south working?

    Il south working è un termine, e un progetto, ideato da Elena Militello che, dopo varie esperienze all’estero, è tornata nella sua città natale proprio a causa dell’emergenza sanitaria. La prospettiva di tornare a casa e poter continuare a lavorare anche da remoto l’ha spinta a fondare South Working - Lavorare a Sud: scopo dell’organizzazione è quello di promuovere, attraverso l’implementazione del lavoro agile, il rientro nelle città di origine, in modo da favorire una ripresa e valorizzazione dei territori, specialmente al sud, abbandonati.

    Sono tante le iniziative che stanno nascendo nel sud Italia per alimentare questo fenomeno e riportare a casa tanti professionisti che hanno abbandonato i propri luoghi d’origine. Nascono così una serie di progetti: dagli spazi di coworking aperti ai nomadi digitali ai bandi per vincere dieci giorni di smart working in barca a vela (come questo proposto dal comune di Brindisi).


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    3. South working: tre testimonianze

    Abbiamo chiacchierato con tre professionisti che hanno lavorato dal sud Italia, per capire i pro e i contro del South Working.

     

    F.P. ha 43 anni, è un Consulente in Digital Marketing e vive a Bologna dove collabora con diverse aziende. Originario di Monte Sant’Angelo, in provincia di Foggia, è tornato nella sua città natale per due mesi post lockdown. Non è la prima volta che F. torna a casa a lavorare da remoto: ogni anno, per almeno due mesi, a ridosso delle vacanze estive, lavora ai suoi progetti dalla Puglia.

    Il punto di forza del suo south working è rappresentato dal risparmio, non solo economico, ma anche di tempo” dice F. che continua: “Da casa, specie se di proprietà o dei genitori, si riducono le spese dell'affitto e dei consumi in generale; inoltre, in cittadine così piccole, è più facile muoversi e in questo modo si guadagna tempo in termini di spostamenti. Con la possibilità di fare pausa pranzo fuori e di staccare alle 18 per andare al mare, si lavora non solo di più, ma anche meglio.”

    Nonostante ciò, F. non si trasferirebbe in pianta stabile al sud, ma sarebbe disposto a dividersi tra Bologna e Monte Sant’Angelo, dove passerebbe 4 o 5 mesi l’anno.


     

    S.R. ha 28 anni e lavora come Financial Reporting Analyst per una multinazionale di consulenza manageriale. Nato e cresciuto a Corigliano - Rossano (CS), quando ne ha avuto l’occasione, è tornato a casa dei suoi genitori diverse volte, tra maggio e settembre, continuando a lavorare per la sua azienda a Milano. I vantaggi che ha trovato nel lavoro da casa sono stati la rete famigliare e di amicizie molto ampia e la possibilità di vivere in spazi più ampi in una città sul mare. Vivendo da solo in un monolocale a Milano, ha apprezzato molto poter condividere le sue giornate con altre persone e poter fare affidamento sugli altri per le mansioni di casa, come la cucina, il bucato, le pulizie. S. è tornato a Milano non per volontà dell’azienda, ma per una sua esigenza e afferma:

    ”Non vivrei in pianta stabile al sud perché la scelta di vivere a Milano non è veicolata solo dall’esigenza lavorativa, ma dalle tante opportunità che la città offre rispetto alla provincia. Parlo della possibilità di avere network più ampi, sia personali che professionali, e delle tante attività culturali che animano Milano, considerata, e a ragione, la città italiana più europea.” 


     

    M.C. ha 30 anni, vive a Madrid da diversi anni dove lavora come Consulente strategico di marketing nel settore premium e luxury in una società argentina di consulenza strategica di marketing alle imprese di beni di largo consumo.

    “Dal 20 maggio al 20 settembre, ho lavorato a Palermo, la mia città d’origine. Rispetto a tanti miei coetanei che vivono in città come Milano e che si sono sentiti alienati nell’ultimo periodo, io non ha avvertito grandi differenze tra l’esperienza di smart working a Madrid, nel pieno dell’emergenza sanitaria, e quella a Palermo poi, quando sono riuscito a tornare a casa” dice M., che ha apprezzato la possibilità di andare al mare e di vivere i paesaggi naturalistici siciliani legati alla sua infanzia.

    Ma ora è tornato in Spagna per riprendere la vita d’ufficio: non vivrebbe in pianta stabile al sud perché apprezza la vita più dinamica di Madrid e perché lavorando da remoto perderebbe il contatto umano, che ritiene indispensabile sia nel rapporto con i colleghi che in quello con i clienti.

     

    4. Conclusione

    Il south working è sicuramente un’esperienza che incoraggia i lavoratori a rallentare con i ritmi frenetici delle città e a bilanciare meglio la vita professionale con quella personale. 

    Pur continuando a produrre al nord, questa ondata di lavoratori ha iniziato a consumare al sud, alimentando la speranza di un ricircolo dell’economia e un ritorno d’investimento dell’istruzione di tanti professionisti che hanno lasciato le terre d’origine: ma se questo è un grande vantaggio per il sud Italia, per le città del nord rappresenta un pericolo.

    Basti pensare a Milano, una città in cui quotidianamente circolavano 3 milioni di persone, più del doppio dei suoi residenti, che nel periodo del lockdown ha registrato drastiche perdite nelle attività commerciali: un fenomeno che rischia di non essere più momentaneo, proprio a causa del south working.

    L’esperienza del south working, per quanto positiva, non implica necessariamente un’inversione del fenomeno migratorio che da secoli caratterizza l’Italia,ma sicuramente insegna due importanti lezioni:

    •  i lavoratori hanno bisogno di più flessibilità per bilanciare al meglio vita e lavoro;
    •  le grandi città devono andare incontro a queste nuove esigenze, con costi più contenuti (specialmente negli affitti) e servizi sempre più a misura d’uomo.

     

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