Burnout: come l’HR può prevenirlo (per sé e per i collaboratori)

    Si sa, in molte occasioni il lavoro può portare le persone a subire livelli di stress molto elevati a causa di diversi fattori. Se lo stress diventa davvero troppo difficile da gestire, si può arrivare anche al cosiddetto “burnout”. Ogni persona può provare a lavorare su di sé per non vivere questa condizione, ma è anche responsabilità dei manager e dell’HR promuovere un ambiente di lavoro sano che metta al primo posto il benessere della forza lavoro.

    1. Cosa si intende per “burnout” nel mondo del lavoro
    2. Come l’HR può cogliere i sintomi di burnout
    3. Suggerimenti per evitare il burnout dei collaboratori

     

    1. Cosa si intende per “burnout” nel mondo del lavoro

    “Bruciarsi, esaurirsi”. Questo è il significato letterale dell’espressione inglese “to burn out”, che indica appunto uno stato di esaurimento emotivo, fisico e mentale. Secondo la classificazione proposta dall’OMS, si tratta di una forma di stress lavorativo che non si è in grado di gestire. Non sarebbe una malattia a sé stante, ma un “fenomeno occupazionale”. Chi ne è vittima, non è più in grado di affrontare il proprio carico di lavoro quotidiano e finisce per soffrire di esaurimento cronico.

    Il termine “burnout” compare per la prima volta in ambito sportivo intorno agli anni ’30, in riferimento agli atleti che, dopo alcuni successi, non riuscivano a mantenere gli elevati standard raggiunti. In seguito, l’espressione è stata ripresa dalla psichiatra Christina Maslach per definire il burnout come una sindrome da rapido esaurimento emotivo e fisico ed erosione dell’impegno nel lavoro, risultato dello stress cronico nelle persone che si occupano degli altri esseri umani, in particolare se questi hanno problemi o stanno soffrendo. 

    In costante aumento nei paesi industrializzati a causa dei cambiamenti della qualità del lavoro e dei ritmi sempre più elevati, il burnout si riferisce quindi al solo contesto lavorativo e non alle esperienze in altre aree di vita. Allo stesso tempo, però, una volta emerso è difficile circoscriverne le conseguenze alla sola dimensione professionale, perché il disagio si estende molto spesso anche alla vita privata, e in forme diverse a seconda del caso specifico.

    Le professioni più colpite sono quelle che implicano un contatto costante con le persone e le loro esigenze, che richiedono di essere sempre a disposizione e il cui obiettivo professionale è il benessere e la risoluzione dei loro problemi. Non solo quindi le professioni di cura (medici, infermieri, psicologi, insegnanti), ma anche tutte le categorie che hanno a che fare di frequente con il pubblico o svariati colleghi (avvocato, poste, segretaria, centralinista, manager).

    La sindrome del burnout ha inoltre maggiore probabilità di svilupparsi in situazioni di forte divario tra la natura del lavoro e la natura della persona che svolge quel lavoro. Molti contesti professionali richiedono una forte dedizione e un notevole impegno, sia in termini economici sia in termini psicologici e, in certi casi, i valori personali sono messi in secondo piano rispetto a quelli lavorativi.

    Ci sarà forse capitato di vedere dei video su internet che ritraggono persone che improvvisamente diventano preda di scatti d’ira sul posto di lavoro, che non ne possono più e sfogano tutta la propria frustrazione anche in maniera apparentemente spropositata. Ecco, quella può essere una (ma non la sola) manifestazione della sindrome di burnout. Non facciamoci però ingannare da questi video credendo che il burnout emerga così all’improvviso, dall’oggi al domani: la realtà è infatti che il burnout si manifesta in fasi diverse e in un lasso di tempo prolungato.

    Proviamo allora a metterla così: che cosa non è, dunque, il burnout

    Innanzitutto, come abbiamo detto, si usa questa espressione solo in riferimento al contesto lavorativo. Inoltre, non va confuso con disturbi specificamente associati allo stress, come ad esempio nel caso del disturbo post-traumatico da stress, anche se alcune manifestazioni possono essere le stesse.

    Non bisogna parlare di burnout, quindi, quando si è affetti da stress cronico anche in situazioni differenti dal lavoro, come in ambito familiare o relazionale, e se si soffre di disturbi d’ansia specifici, dell’adattamento e dell’umore.

    Non si tratta di burnout nemmeno quando lo stress lavorativo è solo temporaneo, prevedibile e limitato nel tempo, e le reazioni all’impegno psicofisico regrediscono con brevi pause di recupero.

     


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    2. Come l’HR può cogliere i sintomi di burnout

     

    Sembrerà scontato ribadirlo, ma i manager e l’HR devono essere sempre attenti al benessere delle persone che lavorano in azienda. Questo significa, in primis, adottare tutte le misure necessarie a garantire delle buone condizioni di lavoro che mettano la persona al centro; se però qualcosa andasse storto, e se per qualsiasi motivo qualcuno sviluppasse la sindrome di burnout, l’HR deve essere in grado di identificarla subito, possibilmente fin dalle sue prime fasi.

    All’inizio, molte delle persone interessate da questa sindrome possono ancora dare prova di impegno e abnegazione, cominciando ad avvertire solo leggermente una sensazione di stanchezza e calo dell’efficienza, che pian piano si trasforma in sfinimento e distacco mentale rispetto alla propria attività lavorativa.

    Successivamente, si inizia a provare un senso di spossatezza, irritabilità e irrequietezza con l’eventuale manifestarsi di una stanchezza cronica. Nella fase finale invece aumenta la rassegnazione, cala la concentrazione e mancano le forze

    Questi, dunque, i principali sintomi psichici:

    • maggiore vulnerabilità in caso di delusioni e imprevisti;
    • soddisfazione sempre minore data dal proprio lavoro;
    • vuoto interiore;
    • calo della fiducia nelle proprie capacità;
    • elevata sensibilità allo stress.

    A questi, si accompagnano anche dei veri e propri sintomi fisici:

    • mal di testa;
    • stanchezza;
    • disturbi del sonno;
    • tensione;
    • disturbi gastrointestinali;
    • tachicardia.

    In base alle dimensioni maggiormente interessate, la persona avrà quindi un insieme di sintomi diversi che, purtroppo, spesso danno inizio a un circolo vizioso da cui è difficile uscire e che diventa visibile anche dall’esterno a un occhio attento, dal momento che iniziano a emergere anche sintomi occupazionali e comportamentali:

    • alta resistenza ad andare al lavoro, assenteismo per malattia, richieste di invalidità o permessi;
    • presenzialismo, ovvero sostanzialmente il contrario del sintomo precedente, tanto che si tende a recarsi al lavoro nonostante non si sia nelle condizioni di poterlo fare, con conseguente perdita di produttività;
    • disinvestimento dal lavoro e isolamento, e quindi difficoltà a interagire con le altre persone, monitoraggio incessante dell’orologio, perdita di interesse, allontanamento e reazione negative verso il prossimo sul luogo di lavoro;
    • alimentazione squilibrata;
    • perdita di autocontrollo.

    Se si manifestano alcune di queste condizioni, quindi, l’HR deve immediatamente intervenire per supportare la persona nel suo momento di difficoltà e alleviarne lo stress, possibilmente intervenendo sulle cause che l’hanno generato.

     

    3. Suggerimenti per evitare il burnout dei collaboratori

     

    Cos’è, quindi, che provoca il burnout? 

    Anche in questo caso, i fattori scatenanti variano da persona a persona. Una cosa però è certa, ovvero che la sindrome da burnout è la conseguenza di uno stress cronico che presenta fattori di rischio interni ed esterni. Questi possono essere alcuni dei fattori di rischio interni:

    • impegno esagerato;
    • elevate pretese da sé stessi;
    • perfezionismo;
    • aspettative troppo elevate;
    • eccessiva competizione con colleghi e colleghe;
    • perplessità sul senso del proprio lavoro;
    • difficoltà a dire di no.

    Ci sono poi i fattori esterni, su cui manager e HR devono intervenire in caso di bisogno:

    • sovraccarico di lavoro;
    • mancato riconoscimento dell’impegno profuso nel lavoro;
    • mobbing;
    • molestie psicologiche e/o fisiche;
    • assenza di equità, ovvero una percezione di scarsa onestà e correttezza;
    • difficili interazioni con colleghe, colleghi e clienti;
    • frequenti conflitti nella programmazione del lavoro o interruzioni;
    • compiti e obiettivi poco chiari;
    • scarso controllo o, al contrario, eccessivo controllo sui compiti da svolgere;
    • leader incapaci di gestire il proprio team di lavoro.

    Per valutare la presenza di questi fattori, può essere una buona idea organizzare incontri periodici con le persone per confrontarsi sul livello di soddisfazione e su ciò che potrebbe essere migliorato per riorganizzare il lavoro.

    Se l’HR individua uno di questi fattori all’interno dell’organizzazione, è bene cominciare a lavorarci per prevenire casi di burnout. In merito all’ultimo punto, in particolare, è bene sottolineare che la qualità della leadership dell’azienda ha un ruolo di primaria importanza, che può influire positivamente o negativamente sulle persone. Una buona pratica può essere quindi quella di promuovere una leadership positiva all’interno dell’impresa, capace di migliorare il clima del gruppo di lavoro e la cultura organizzativa. 

    Un leader positivo sa motivare le persone, coinvolgerle, valorizzarle, promuovere un ambiente sereno e stimolante. L’HR deve avere quindi la capacità di selezionare leader che abbiano queste capacità, o almeno la volontà di coltivarle.

    Al contrario, occorre intervenire qualora si individuino situazioni in cui le persone si lamentano di manager eccessivamente autoritari, narcisisti, incapaci di delegare e di dare responsabilità a chi lavora per loro: tutti indicatori che ci fanno capire che siamo in presenza di una leadership negativa.

    Secondo Cristina Maslach, ci sono 5 pattern di comportamento da evitare in modo da aiutare l’organizzazione a ridurre le condizioni antecedenti al burnout:

    • l’uso di un linguaggio negativo. Spesso ci focalizziamo sulla comunicazione non-verbale come segnale per esprimere le nostre emozioni, ma occorre anche considerare quanto siano le parole che scegliamo a creare una connessione tra i concetti che esprimiamo e lo stato emotivo che provochiamo nelle altre persone. Un importante esercizio da compiere è quindi la ri-verbalizzazione delle parole negative, imparando a esprimersi in maniera più costruttiva;
    • l’agire in modo inusuale e incostante. Siamo portati a celebrare la spontaneità e l’imprevedibilità come elementi distintivi di menti libere e brillanti, ma la maggior parte delle persone ha bisogno di ridurre intorno a sé l'incertezza, soprattutto in ambito lavorativo. Occorre quindi cercare di evitare di introdurre in modo incontrollato strati di complessità non necessari e lasciare che i nostri collaboratori e le nostre collaboratrici possano capire facilmente cosa sta per accadere. Specialmente in un periodo come quello che stiamo vivendo ormai da più di due anni;
    • la volatilità emotiva. Capi umorali possono essere difficili da gestire. Al di là della singola personalità, occorre contenere le proprie emozioni e preferire la calma e la stabilità emotiva;
    • l’eccesso di pessimismo. Nel nostro modo di pensare occidentale, il pessimismo viene stigmatizzato quasi come un problema psicologico. Durante una crisi, eccedere nel pessimismo può rappresentare un importante elemento di demotivazione per sé stessi e per gli altri. Cercando di evitare sia l’eccessivo pessimismo sia il suo opposto, che potrebbe portare a decisioni scorrette, bisogna mantenere una vista obiettiva basata sui fatti, con uno sguardo alle opportunità piuttosto che ai problemi;
    • ignorare le emozioni degli altri. Più siamo immersi nel nostro sentire, maggiore è il rischio di ignorare ciò che sta accadendo agli altri. L’empatia è uno degli antidoti migliori per prevenire il burnout. È importante misurare numeri, risultati e performance quanto osservare come le nostre persone stanno, come si sentono, gli umori e i silenzi.

    I modelli di leadership positiva sono quelli generalmente adottati dal Chief Happiness Officer, in breve CHO, una figura sempre più diffusa in diverse aziende che aiuta proprio a promuovere un migliore ambiente di lavoro per garantire un maggiore livello di benessere della forza lavoro e prevenire situazioni di insoddisfazione, frustrazione e burnout.

    Quando si inserisce una figura simile in azienda, la si incarica di definire un vero e proprio piano strategico per migliorare la cultura aziendale e portare le persone al maggior livello di soddisfazione possibile. Anche senza introdurre un CHO, l’HR può e deve comunque individuare gli elementi in cui l’organizzazione può migliorare per garantire il benessere delle persone e prevenire casi di burnout, intervenendo sulla cultura aziendale.

    Del resto, è la cultura delle stesse persone a essere cambiata, il loro modo di concepire l’attività lavorativa e il suo ruolo all’interno della vita. Stiamo parlando soprattutto dei Millennial e della Generazione Z, che prestano sempre maggiore attenzione all’equilibro tra vita privata e lavorativa, e sono sempre meno disposti a sacrificare la propria serenità per l’azienda in cui lavorano.

    Per molti di loro, due parole chiave sono flessibilità e mobilità. Nuove condizioni di lavoro che vanno incontro alle esigenze della nuova generazione di lavoratori e lavoratrici. Meno tempo perso a spostarsi, migliore gestione delle faccende domestiche, possibilità di lavorare in ogni posto nel mondo.

    E dunque, home working per tutti? Non esattamente. L’equazione lavoro da remoto = maggiore benessere non è automaticamente vera, e anche in questo caso i manager e l’HR devono impegnarsi per fare in modo che questa esperienza non porti a risvolti negativi. Se pensiamo al lavoro da remoto, spesso questo può essere caratterizzato da alcuni elementi che vanno assolutamente evitati: 

    • alienazione, isolamento;
    • disorganizzazione sia dell’azienda, sia della singola persona nel lavorare da casa;
    • eccessivo controllo e poca fiducia da parte del management;
    • orari di lavoro dilatati.

    Questi fattori possono rivelarsi cause di burnout, con implicazioni sul clima dell’organizzazione, sulla produttività e sul tasso di turnover del personale.

    Questo è quello che succede quando il lavoro da remoto non si traduce in vero e proprio smart working: a cambiare non è solo il luogo in cui si svolge la propria attività, ma la cultura dell’organizzazione e delle sue figure apicali, che devono ridefinire gli obiettivi dei team e fare in modo che siano condivisi, sfidanti ma raggiungibili e declinati in azioni.

    L’HR può fornire anche una serie di consigli utili ai singoli individui per fare in modo che si prendano cura di sé e prevengano l’insorgere di quelle cause che possono portare al burnout:

    • fare esercizi di rilassamento e consapevolezza;
    • esercitare l’autocoscienza;
    • nutrire l’auto-accettazione;
    • mantenere uno stile di vita sano e attivo;
    • coltivare il dialogo e il sostegno reciproco con colleghe e colleghi;
    • se il carico di lavoro è eccessivo, meglio identificare le priorità e proseguire affrontando un compito alla volta;
    • ridurre le aspettative irrealistiche.

    Questi consigli possono essere utili anche per i leader dell’organizzazione, a cui bisogna insegnare anche una maggiore cultura della fiducia, a scapito del continuo controllo sulle persone (spesso con continue videochiamate), passando come detto da una ridefinizione degli obiettivi. Si può provare a privilegiare la qualità contro la quantità di tempo passato davanti al computer, sia esso quello dell’ufficio che quello di casa. Così come è importante imparare a limitare la comunicazione fuori dalle ore di lavoro, non permettendo l’invio di email e dando confini ben precisi.

    Si tratta inoltre di buone pratiche che possono essere promosse attivamente anche all’interno dell’organizzazione. Ad esempio, un importante strumento, di cui recenti studi hanno provato l’efficacia nella prevenzione del burnout, sono i corsi di mindfulness, una forma di meditazione che viene impiegata ormai da tempo per la gestione di stati di ansia, stress e numerose altre problematiche psicologiche.

    Ad ogni modo, al di là dei singoli strumenti che possiamo adottare, l’importante è dotarsi di un approccio all’interno dell’azienda tale per cui le performance e i risultati vadano a braccetto con il benessere del personale, senza mai entrare in conflitto. Solo in questo modo potremo creare un’organizzazione felice, capace di coniugare il benessere dell’impresa con quella delle persone che vi lavorano.

     


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    Reverse è una realtà in continua evoluzione: come un gruppo di scienziati e ricercatori che giorno dopo giorno creano qualcosa di nuovo per migliorare e semplificare il mondo dell’Head Hunting e l’attività di chi si occupa di HR.
    Alessandro Raguseo, CEO