Video call: agevolare la digitalizzazione senza favorire il burnout

    Iniziamo questo articolo chiedendoti di fare un esperimento: non temere, è una cosa davvero semplice. Apri il tuo calendario di lavoro e controlla quante “caselline” nel corso della giornata di oggi o dei prossimi giorni sono rimaste vuote. Scommettiamo con una certa sicurezza che, indipendentemente della tua posizione in azienda, la maggior parte degli “slot” (ormai così si chiamano) del tuo tempo professionale sia già stata precettata da un impegno che, 9 volte su 10, sarà una call (anzi, una videocall).

    Se ci sbagliamo siamo felici di farlo, e non perché ti vogliamo scarico da impegni, ma perché apprezziamo chi è riuscito a smarcarsi dalla dittatura delle call comprendendo – e soprattutto facendo comprendere agli altri – che lavorare, nel 2022, non equivale (solo) ad accettare un invito su Teams o inviarne uno su Meet. 

    La vita professionale non corrisponde solo alla propria presenza su Zoom (o qualsiasi altra piattaforma equivalente) e, due anni dopo il boom dell’interazione digitalizzata, crediamo sia il caso (ancora una volta, senza stancarci di farlo) di elencare vantaggi e limiti di un’interazione digitalizzata che, ormai lo abbiamo capito, non è più un’eccezione dovuta all’emergenza.

    1. Digitalizzazione del lavoro e burnout: l’esito di un matrimonio infelice
    2.  Le 3 P del Next Normal
    3. Un percorso in 4 step per evitare burnout e meeting overload

     

    1. Digitalizzazione del lavoro e burnout: l’esito di un matrimonio infelice

    La cartina al tornasole dell’umore e dei pensieri delle persone è rappresentata, ora più che mai, dai social media. Se apri LinkedIn e fai una ricerca su contenuti che hanno a che fare con il lavoro (e in particolare con il “feeling” che si ha con la propria quotidianità professionale) quel che salta all’occhio è una generale esasperazione.

    Le persone sono stanche

    E la stanchezza genera malumore. Il malumore porta a pensieri poco lucidi su presente e futuro. La poca lucidità permea la qualità della produttività. E una performance   scadente al lavoro fa ripartire dal via, in un gioco dell’oca dove a perdere sono le stesse persone che ci stanno giocando e, di riflesso, le aziende per le quali lavorano.

    Nel paragrafo qui sopra abbiamo descritto, in maniera estremamente semplicistica, quella sindrome che nel 1974 lo psicologo americano Herbert Freudenberg definì con il termine di “burnout”, ossia una “estinzione della motivazione o degli incentivi”, un disadattamento che conduce all’incapacità di trovare stimoli e risorse per affrontare gli ostacoli, anche quelli più piccoli.

    Al netto del fatto che un po’ di stanchezza è sempre e comunque normale (pandemia o no), quali sono gli elementi che, in questo frangente, hanno concorso a renderla “leggendaria”? 

    Non abbiamo la presunzione di poterli elencare tutti e tantomeno di credere che quelli che metteremo uno dopo l’altro siano condivisibili in assoluto. 

    Ci sono però delle evidenze che ci portano a trovare alcuni comuni denominatori, per esempio:

    1. la tendenza (più che tendenza è ormai una vera e propria certezza) al meeting overload: anche se lo si fa online, ci si incontra molto più di prima, e secondo una statistica pubblicata da Polly in collaborazione con Prezi, Pledge e altre aziende, addirittura 5 volte in più del periodo pre-pandemico. All’inizio sembrava ed era fondamentale: per settare nuove abitudini relazionali allo scopo di non intaccare la produttività, organizzare dei meeting online era il modo per allinearsi internamente al proprio team e tra team differenti e garantire una certa continuità alla routine aziendale anche in piena emergenza pandemica. Ma poi, ammettiamolo, ci si è un po’ fatti prendere la mano: gli “swamped calendars” (ossia i calendari sommersi di impegni) urtano i nervi se non di chiunque almeno del 56% dei lavoratori che Doodle ha intervistato sul tema. Il punto è che nella maggior parte dei casi questi incontri risultano “non necessari”, o perlomeno non utili a buona parte delle persone che vi sono coinvolte. L’approccio a una video-call è quindi spesso sospettoso, se non proprio già frustrato in partenza: è una storia che si ripete, mattino dopo mattino, pomeriggio dopo pomeriggio e spesso anche in quell’ora di cuscinetto che una volta si chiamava pausa pranzo e che adesso diventa invece un potenziale slot da occupare. Perché liberando l’incontro dalla sua componente fisica ci si illude di spogliarlo anche del suo vestito temporale, ma non è così (proprio per niente).
    2. Diretta conseguenza del meeting overload è il multitasking obbligato: come dicevamo all’inizio dell’articolo non c’è perfetta corrispondenza tra il portare a termine i propri compiti professionali e partecipare a una call. Il lavoro delle persone non è “stare online su Teams/Meet/Zoom” e spesso ciò di cui si discute in questi incontri è solo la punta dell’iceberg di una serie di attività che è necessario portare avanti per fare davvero il proprio mestiere. Ma se si trascorre la quasi totalità del proprio tempo in video-call, dove si trova dell’”altro tempo” per lavorare? La risposta la sai già, ma te la conferma anche Microsoft che lo scorso anno ha pubblicato questo studio mostrando come almeno il 30% dei suoi dipendenti “sfrutta” i momenti dei meeting virtuali per controllare le mail (e quindi scriverne a sua volta) e un altro 25% anche per attività più complesse come organizzare, scrivere o impostare presentazioni, editare file e, in generale, “portarsi avanti con quel che c’è da fare”. Il multitasking è ovviamente anche strettamente correlato alla durata dei meeting ai quali si prende parte: l’attenzione esclusiva nei confronti dell’incontro si assesta sui 20 minuti scaduti i quali si inizia a “friggere”. Ti lasciamo quindi solo immaginare cosa possa succedere a chi è obbligato a presenziare – magari del tutto passivamente – a meeting che sforano l’ora e mezza.
    3. L’approccio always on: ne abbiamo accennato in questo articolo sulle ferie illimitate, ricordando come le nuove modalità di lavoro abbiano portato a non distinguere più tra tempo dedicato ad attività professionali e momenti “privati”. Il fatto è che, ora più che mai, tutto sembra sempre possibile, perché tutto, grazie alla tecnologia, è a portata di mano, “a disposizione”. Sì, anche il tempo delle persone, praticamente indistintamente. Il diritto alla disconnessione di cui tanto si è iniziato a parlare nasce proprio dalla necessità di proteggere i lavoratori da un eccesso di stimoli professionali: lavorare così tanto, spesso non è necessario e il confine sempre più labile tra vita professionale e vita privata porta a una dispersione di energie che da una parte intacca la produttività (in pratica si lavora – o si crede di lavorare - di più, ma in ogni caso lo si fa peggio) e dall’altra fagocita il tempo a propria disposizione.
    4. Sistematica assenza di worklife balance: come succede con le tessere del domino dove la caduta di una innesca quella delle altre, nello stesso modo l’essere “always on” non permette un corretto equilibrio tra tempo dedicato alla vita privata e momenti professionali, soprattutto per le figure più junior. Spesso non si tratta nemmeno di mettere sulla bilancia pesi diversi, ma di non saperli proprio distinguere. L’assenza di confini netti e la conseguente impossibilità di dedicarsi davvero ad altro che non sia il proprio lavoro è una delle leve che ha mosso il fenomeno della Great Resignation e tutto quello che ne è scaturito, sia in termini individuali, sia da un punto di vista più “collettivo”.

    Ora che abbiamo capito, senza presunzione di esaustività, quali sono le cause che possono sottendere a un potenziale burnout dei lavoratori e soprattutto cosa si intende esattamente con il termine, vediamo come ci si è arrivati e quali sono, ora, le 3 P che un buon HR dovrebbe tenere sempre a mente.


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    2. Le 3 P del Next Normal

    La nostra bussola ci dice che il Next Normal è già qui.

    Il termine, coniato da McKensey non più di un paio di anni fa, quando si iniziava a entrare nel cosiddetto New Normal, indica la normalità post-pandemica e, nel nostro caso, soprattutto quella che ha a che fare con il lavoro.

    Al netto del rischio di burnout (che, non per spaventarti, ma forse anche un po’ sì, è davvero sempre alle porte), se volessimo spacchettare il Next Normal professionale da un punto di vista prettamente umanistico, troveremmo le 3 P che lo compongono:

    • le Persone, sempre e comunque al centro di qualsiasi riflessione, proposta e cambiamento soprattutto quando in discussione c’è proprio il mondo del lavoro;
    • le Priorità: delle persone, sicuramente, e delle aziende, ovviamente;
    • le Possibilità: viste sia dal punto di vista delle persone, sia, di contro, da quelle delle aziende. Perché l’opportunità per le prime può non corrispondere a un vantaggio per le seconde e viceversa.

    Ad avere gettato il cuore oltre l’ostacolo, obbligati dai fatti, siamo stati tutti noi: lavoratori di qualsiasi industria senza distinzione, né gerarchica, né di età. Abbiamo fatto di necessità virtù e tu che lavori nell’HR ti sei dovuto occupare anche di un “add on” non da poco, ossia indorare la pillola che in molti faticavano non solo a voler mandare giù, ma proprio a prendere in mano.

    Al netto delle differenze tra industria e industria e, più nello specifico, tra le singole aziende, la partita che si è giocata negli ultimi due anni è stata sì questione di armonia di squadra, ma, soprattutto, di intenzione del singolo.

    Le persone – professionalmente parlando - si sono improvvisamente ritrovate da sole: fisicamente, affrontando lo smart working lontane da colleghi e “capi”, ma anche in senso più “filosofico”, dovendo fare i conti con una serie di piccole e grandi difficoltà che fino a quel momento non erano assolutamente preparate ad accogliere.

    Prima fra tutte la necessità di continuare il proprio compito professionale e quindi garantire la produttività sfruttando strumenti che prima di allora erano solo un “di cui” e non il perno sul quale far ruotare la propria quotidianità professionale.

    La tecnologia, e quindi la digitalizzazione, ha giocato un ruolo fondamentale, permettendo che tutto – o quasi tutto – potesse continuare a scorrere quasi come prima, ma ha anche aperto vasi di Pandora pieni di disagio e disallineamento digitale. Se i più giovani hanno con piacere fatto a meno della pausa caffè “alla macchinetta” sostituendola con una chat su Teams dove condividere pensieri e momenti “più easy” con i colleghi, i lavoratori più anziani o comunque più legati alla presenza fisica hanno scoperto il fianco alla loro inadeguatezza tecnologica e alle loro incapacità e spesso mancanza di volontà di traslare con efficienza una relazione fino ad allora “analogica” in un rapporto digitale. 

    Aver educato e reso consapevoli questi lavoratori a un nuovo approccio al lavoro non è bastato per colmare quei gap che si sono venuti a creare e che le persone, in maniera diversa rispetto al proprio vissuto, alla propria esperienza e anche alla propria posizione anagrafica, hanno riempito con pensieri legati, appunto, alle proprie Priorità.

    Se volessimo usare una metafora diremmo che in questi anni la coperta è sempre stata troppo corta: quando copriva un disallineamento digitale, per esempio, lasciava scoperta l’importanza di tessere relazioni di valore da parte dei lavoratori più giovani e così via. Pensando proprio alle nuove generazioni, l’ormai citatissima YOLO (You Only Live Once) economy si nutre – anche – dell’insoddisfazione cresciuta in ambito professionale proprio negli ultimi due anni. Ne abbiamo parlato in modo approfondito qui, quando si è indagato il tema della Great Resignation o, come viene ora anche chiamato, il Big Quit.  

    Se le Persone pensano alle proprie Priorità, lo stesso dovrebbero fare le aziende, andando a identificarle nella complessa intersezione che esiste tra necessità di business, ascolto delle proprie risorse e comuni dichiarazioni di intenti.

    Se pensi che tutto questo sia una passeggiata di salute, ti stai sbagliando. La buona notizia, però, è che delle accortezze per gestire al meglio situazioni critiche possono essere messe in pratica e nel paragrafo successivo proviamo a darti qualche consiglio.

     

    3. Un percorso in 4 step per evitare burnout e meeting overload

    Iniziamo con una grande premessa: la digitalizzazione del lavoro, il conseguente meeting overload, la necessità di un multitasking obbligato e il mancato worklife balance sono in realtà le gocce che hanno fatto traboccare un vaso i cui ingredienti, al suo interno, iniziavano probabilmente da tempo a essere “mescolati” in modo sbagliato. Il risultato, in pratica, è molto simile a quello a cui assistiamo quando gettiamo una caramella alla menta nella bottiglia di una bibita gassata. 

    Detto questo risulta necessario sia sistemare i problemi più “strutturali”, sia trovare delle soluzioni più pratiche affinché si allontani l’eventualità di un possibile burnout.

    In questa sede ci accontentiamo di pensare alle soluzioni pratiche, e quindi ecco in un percorso a step cosa potresti fare per allentare la pressione e togliere stress alla quotidianità professionale delle persone della tua azienda:

    • suggerisci ai team un modo per valutare quali meeting organizzare, quando farlo e chi includere nella lista degli “invitati” (per non replicare il dilemma ormai “antico” di chi mettere in copia nelle mail).
    • Il secondo step ce lo suggerisce Tammy Bjelland, CEO di Workplaceless, che afferma “Quando i leader si accorgono di eventuali situazioni di meeting overload o burnout, dovrebbero essere i primi a valutare quanto il loro stesso mindset e atteggiamento concreto contribuisce a tutto ciò”. Se volessimo riassumerla con un detto popolare diremmo che “il pesce puzza sempre dalla testa”: se i lavoratori soffrono il fenomeno del meeting overload o addirittura una situazione di più grave burnout è (molto) probabile che sia il contesto in cui sono inseriti a favorire tali situazioni. È molto comune infatti che le persone si adeguino al modo di affrontare la quotidianità professionale suggerito dai loro stessi “leader”. Risulta quindi indispensabile incoraggiare una cultura aziendale che dia valore al tempo libero o, perlomeno, che rispetti una gestione del tempo professionale equilibrata ed efficiente.
    • Valutare la possibilità di integrare nei propri flussi di lavoro (parzialmente o del tutto) la cosiddetta comunicazione asincrona, ossia valorizzare la possibilità che lo scambio di informazioni di valore spesso possa essere completamente indipendente dalla necessità di un feedback immediato da parte degli attori coinvolti, chiunque essi siano. La comunicazione asincrona non si improvvisa, soprattutto quando non vi è sufficiente consapevolezza delle opportunità che un tale approccio potrebbe creare in azienda. Per questo è necessario impostare delle guidelines e accompagnare in un percorso di comprensione e adattamento a una nuova modalità di scambio di informazioni. E non da ultimo, occorre sottolinearlo, non è sempre integrabile.
    • Chiudiamo con un consiglio che solo all’apparenza va in conflitto con tutto quello che abbiamo detto finora. Quel che non si tiene in considerazione quando si parla di meeting overload è che le persone che si lamentano di questa situazione sono, nella maggior parte dei casi, le stesse persone che quei meeting li organizzano. Inconsciamente, infatti, lo smartworking e il remote working hanno portato tutti noi a voler ricercare quella socialità che prima ci veniva garantita dalla condivisione di uno stesso spazio fisico all’interno di uno schermo. Evitare (o addirittura impedire) i meeting online vorrebbe dire risolvere un problema, ma crearne un altro. Incoraggiare le persone a coltivare online l’aspetto sociale del lavoro è quindi un dovere di ogni HR Manager. Farlo nel migliore dei modi è un plus per il quale la tua azienda e le persone che vi lavorano ti ringrazieranno (magari non platealmente, ma, lo sai, lavorare dietro delle quinte vuol dire anche fare i conti con la “gratitudine nascosta”).

    Offrire delle precise – ma anche flessibili – guidelines su come organizzare i meeting e soprattutto come valutarne la reale necessità così come prevederne alcuni di ricorrenti - da quelli di onboarding dedicati alle “nuove leve” a quelli di facilitazione dei legami di team, per esempio - possono essere alcune valide modalità per mostrare un approccio sano ed efficace alla gestione di relazioni e lavoro “da lontano”.

    Ci sarebbero fiumi di parole da scrivere su questo tema in continua evoluzione ma speriamo di averti dato una buna panoramica e qualche spunto utile; ora noi come te stiamo ad osservare il mondo del lavoro che cambia, come sempre un po' attori e un po' spettatori.


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    Reverse è una realtà in continua evoluzione: come un gruppo di scienziati e ricercatori che giorno dopo giorno creano qualcosa di nuovo per migliorare e semplificare il mondo dell’Head Hunting e l’attività di chi si occupa di HR.
    Alessandro Raguseo, CEO