Gender pay gap: capire il fenomeno per contrastarlo

    Se ci venisse chiesto qual è il più grande furto della storia dell’uomo, probabilmente proveremmo a ricordare qualche famosa rapina entrata nella leggenda e nell’immaginario collettivo per la sua epicità. Invece, questa definizione, “il più grande furto della storia”, è stata usata nel 2018 da Anuradha Seth, consigliera per il programma di sviluppo delle Nazioni Unite, per indicare il gender pay gap. Allora a livello globale, secondo i dati dell’Onu, il gender pay gap era del 23%: per ogni dollaro guadagnato dagli uomini, le donne prendevano solo 77 centesimi. 

    Oggi la situazione non è cambiata poi molto: andiamo dunque alla scoperta di questo fenomeno, delle sue cause, della situazione al giorno d’oggi in Italia e in Europa e di come è possibile affrontarla.

    1. Cosa si intende per gender pay gap
    2. Gender pay gap: come calcolarlo e quali sono le cause
    3. Situazione del divario retributivo in Italia e in Europa
    4. Come contrastare il gender pay gap nella tua azienda

     

    1. Cosa si intende per gender pay gap

    Facciamo un passo indietro e iniziamo da una definizione, quella di "gender gap": con questo termine si indica il divario esistente tra uomini e donne in tanti ambiti diversi, ma che impattano profondamente sulla vita quotidiana e sul suo svolgimento, come la salute, l’educazione, il lavoro, l’accesso alle attività economiche e così via.

    A monitorare il divario di genere in tutto il mondo da più di un decennio è il World Economic Forum, tra le fonti più affidabili a cui ricorrere quando si tratta di individuare le aree di intervento più urgenti, dove le probabilità che si formino e si consolidino delle differenze tra uomini e donne sono maggiori. 

    Ogni anno viene redatto un report, il Global Gender Gap Report, in cui si analizzano i settori più a rischio e i Paesi che hanno fatto meglio per quanto riguarda il raggiungimento della parità di genere sulla base di quattro indicatori principali: salute, educazione, economia e politica. Riferendosi a questi parametri, per calcolare il gender gap ci si concentra su diversi fattori: l’aspettativa di vita, l’opportunità di accedere alle cure, i tassi di scolarizzazione, la disponibilità di percorsi di formazione, le possibilità di voto, il numero di donne che svolgono compiti istituzionali o rappresentativi.

    Questo, dunque, il gender gap. E il gender pay gap? Senz’altro è strettamente connesso al gender gap, ma riguarda specificatamente lo stipendio dei lavoratori e delle lavoratrici. Il gender pay gap è infatti il divario salariale o retributivo di genere che ancora esiste tra uomini e donne. In parole semplici, altro non è che la differenza tra lo stipendio medio percepito dalle lavoratrici e quello percepito dai colleghi uomini. 

    C’è ancora chi sostiene che il gender pay gap non esista, quando in realtà è un fenomeno ben tangibile, che ancora oggi relega sul posto di lavoro le donne in una posizione di secondo piano anche per quello che riguarda il compenso ricevuto per il lavoro svolto.

    Intuitivamente, penseremmo che una donna che svolge lo stesso ruolo, con gli stessi orari, le stesse qualifiche e le stesse competenze di un collega uomo abbia anche la stessa busta paga, e invece non è così. La discriminazione salariale di genere è un indice che di fatto misura la discriminazione tra uomini e donne. Ne esistono di due tipi:

    • gender pay gap “grezzo”: si basa sulla differenza media della retribuzione lorda oraria, al lordo quindi della tassazione e della contribuzione;
    • gender pay gap totale: si basa sul salario orario, sul numero medio mensile di ore retribuite e sul tasso di occupazione femminile.

    Anche per calcolare il gender pay gap bisogna tenere in considerazione molti fattori e il calcolo non è così semplice. Sono diversi i criteri che bisogna individuare per effettuare questo calcolo e ogni paese potrebbe prendere come modalità di misurazione parametri differenti: si possono considerare la paga ad ore, oppure lo stipendio settimanale o quello mensile, ma non solo. Secondo gli esperti, esisterebbero anche altri elementi che non vengono normalmente inclusi nel calcolo, ma che sono importanti per capire le difficoltà che le donne possono sperimentare quando entrano nel mercato del lavoro, come l’accesso all’istruzione che porta a ricoprire determinati ruoli, il background sociale e le opportunità di crescita.


    La parità di genere sul lavoro rimane un miraggio e il gender gap è ancora molto difficile da eradicare. 

    Ma perché? Ecco i motivi: 

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    2. Gender pay gap: come calcolarlo e quali sono le cause

    A influire sul calcolo del gender pay gap sono diversi fattori: 

    1. Il primo elemento che lo influenza è quello dato da una (auto)selezione nel mercato del lavoro.
      Proviamo a spiegarci meglio prendendo come esempio il caso italiano: nel nostro Paese si verifica un’elevata selezione “positiva” nel mercato del lavoro in quanto la partecipazione delle donne poco qualificate e poco istruite (le quali quindi otterrebbero bassi salari se lavorassero) risulta estremamente più bassa rispetto ad altri Paesi. Queste persone rimangono dunque fuori dal calcolo del gender pay gap, permettendo di ridurlo, per il semplice fatto che non sono nemmeno impiegate (facile così, no?).
    2. Altro fattore di cui tenere conto è che le statistiche solitamente riportate per documentare il gender pay gap considerano la distribuzione dei redditi senza tenere conto della posizione lavorativa, del settore di attività e del livello d’istruzione degli individui. Dato che uomini e donne si differenziano notevolmente sotto questi aspetti, come rilevato nel suddetto Global Gender Gap Report, un confronto a parità di queste condizioni occupazionali determinerebbe una notevole riduzione del gender pay gap. La donna può guadagnare meno perché lavora meno ore nel mercato del lavoro, è meno presente in posizioni di manageriali e si colloca maggiormente in alcune occupazioni o settori produttivi caratterizzati tipicamente da salari più bassi.
    3. Il terzo elemento è il seguente: se ci si focalizza sui divari salariali per ora lavorata, si ottiene un gender pay gap nettamente inferiore rispetto a quello calcolato utilizzando i salari mensili. Ancora più elevato risulta il gender pay gap considerando le differenze annuali o sull’intera vita lavorativa. Più lungo è il periodo considerato, più elevate risultano le differenze fra uomini e donne, a causa della maggiore discontinuità nelle carriere lavorative delle donne rispetto agli uomini, data la maggiore relegazione delle donne nella dimensione familiare: la genitorialità contribuisce ad aumentare lo svantaggio economico della donna.

    Capiamo quindi che il discorso del gender pay gap rientra nel più ampio contesto del gender gap che affligge tanti Paesi nel mondo. A livello globale, sappiamo che il gender pay gap si attesta intorno al 20%. In Europa, nonostante le donne rappresentino quasi la metà della forza lavoro, meno di un quarto delle lavoratrici ricopre cariche di alto livello e dirigenziali e la differenza di retribuzione si attesta intorno a una media del 16%. Uscendo fuori dai confini del vecchio continente, invece, i paesi del mondo dove il gender pay gap è più alto, troviamo Yemen, Siria e Iraq (30%). Dove la donna non ha nemmeno la possibilità di accedere alle stesse opportunità degli uomini, anche il gender pay gap ovviamente aumenta.

    Per riprendere le parole di Anuradha Seth: “Non esiste un solo Paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini”.

     

    3. Situazione del divario retributivo in Italia e in Europa

    E il gender pay gap in Italia? Come avrai capito, dipende da come lo si calcola. Secondo i dati emersi dall’indagine Ipsos condotta per WeWorld Onlus, nel nostro Paese il dato è al di sotto della media europea, intorno al 5%, se consideriamo la differenza nella retribuzione oraria lorda

    I dati cambiano se invece teniamo conto della differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini. Questa stima considera tre principali svantaggi affrontati dalle donne, ossia: 

    • retribuzione oraria inferiore; 
    • meno ore di lavoro retribuito;
    • minore tasso di occupazione;

    In questo caso, il gender pay gap complessivo in Italia diventa del 43,7%, superiore alla media europea del 39,3%.

    Ad ogni modo, anche volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, se consideriamo la situazione occupazionale italiana non c’è motivo di stare allegri. E la situazione è ulteriormente peggiorata con lo scoppio della pandemia: le donne occupano sempre meno posizioni manageriali e vi sono settori in cui, in generale, la presenza femminile è sempre molto più bassa di quella maschile.

    Facciamo alcuni esempi per entrambe le casistiche. Nel settore della salute, il gap occupazionale è molto basso, ma perché vi sono alcuni ruoli che sono svolti in grande parte dalle donne: infermiere, OSS, operatrici delle case di riposo. Tutto il contrario, invece, per quanto riguarda coloro che svolgono funzioni di primari di reparto, che sono per lo più maschili: anche per questo motivo il gender pay gap rimane decisamente marcato.

    Al contrario, il gender pay gap è minimo in settori dove però la presenza femminile è molto bassa, come quello edile: è probabile che le poche donne presenti qui siano occupate nel management e non si dedichino al lavoro fisico-manuale, il cui il salario è tendenzialmente inferiore.

    La situazione del lavoro femminile in ambito scientifico e tecnologico è invece ben nota, con un gender pay gap che sfiora il 25% e un livello occupazionale decisamente basso. Una situazione che si protrae da molto tempo, di cui tutti parlano, ma che è ancora lontana da un reale cambio di prospettiva da parte delle aziende. Si tratta peraltro di occupazioni sempre più richieste nel mondo del lavoro, sempre più cruciali e anche ben retribuite, a cui le donne faticano ad avere accesso più dei colleghi uomini.

    Per provare a invertire la rotta, il 3 dicembre 2021 è entrata in vigore la Legge n. 162 del 5 novembre 2021, nota anche come legge sulla parità salariale - che modifica il Codice delle pari opportunità (D.Lgs. n. 198/2006) e introduce disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo.

    La legge, ad esempio, stabilisce che anche le organizzazioni che hanno più di 50 lavoratori e lavoratrici sono tenute a stilare il rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile e inviarlo ogni due anni al Ministero del Lavoro, al Consigliere regionale di parità e al Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del CdM, pena sanzioni economiche.

    Dall’1 gennaio 2022, inoltre, è istituita la certificazione della parità di genere che attesta le politiche e le misure concrete adottate dalle imprese per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale e alla tutela della maternità. Le aziende virtuose che ottengono la certificazione possono godere di una serie di benefici, ad esempio:

    • è concesso un esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, non superiore all’1% e nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda;
    • è riconosciuto un punteggio per la valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato;
    • è riconosciuto anche un punteggio per la valutazione, da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, delle offerte presentate a seguito della pubblicazione di bandi di gara, avvisi o inviti relativi a procedure per l’acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere.

    A livello europeo, invece, sappiamo che il diritto alla parità salariale è un principio fondante sin dal trattato di Roma del 1957 e che sono già state pubblicate direttive e raccomandazioni da parte della Commissione europea nel 2006 e nel 2014 proprio su questo tema, eppure abbiamo visto come la distanza non sia stata eliminata e sia anzi decisamente importante.

    Per questo, lo scorso anno la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha presentato una nuova proposta di direttiva sulla trasparenza salariale per garantire che nell’Unione Europea donne e uomini ricevano la stessa retribuzione per uno stesso lavoro, chiedendo alle organizzazioni con più 250 dipendenti la condivisione dei dati sul divario retributivo di genere.

    Per quanto l’argomento sia oggetto del dibattito pubblico ormai da diverso tempo, e per quanto si stiano senz’altro facendo dei passi avanti, tutto questo non è ancora sufficiente. Soprattutto in certi ambiti, come quelli che hanno a che fare con le competenze STEM, e quando si parla di ricoprire alte cariche. Questo ci dice molto anche del fatto che il gender pay gap, e il gender gap in generale, sia prima di tutto un problema culturale.

     

    4. Come contrastare il gender pay gap nella tua azienda

    Spesso i grandi cambiamenti iniziano un piccolo passo alla volta, grazie agli sforzi di ciascuno di noi. In questo caso, con l’impegno di ogni singola azienda nel promuovere l’uguaglianza fra i propri lavoratori e le proprie lavoratrici come valore fondante dell’organizzazione. Non solo a parole, ma anche con azioni concrete per abbattere il gender pay gap.

    Spesso lo scenario dal quale si parte non è molto favorevole, sia dal punto di vista culturale che da quello amministrativo, ma ci sono senz’altro diverse strategie da mettere in atto per migliorare la situazione:

    1. analizzare il profilo retributivo aziendale, ovvero i salari della forza lavoro, per avere una visione generale della situazione. Gli stipendi degli uomini e delle donne nella medesima posizione vanno messi a confronto e contestualmente vanno valutate le promozioni ricevute, i bonus, gli incentivi e i licenziamenti per individuare le diseguaglianze;
    2. utilizzare modelli predittivi per identificare e correggere il bias. Partiamo dalla raccolta di dati e dalla costruzione di un database all’interno del quale inserire dati relativi al personale come il salario annuale, il genere, gli anni di esperienza, le performance. Questi vanno poi integrati con i dati relativi a fattori organizzativi come la funzione di appartenenza, eventuali part-time e career level. Infine, vanno inseriti anche elementi geografici che attestano il livello di benessere del Paese in cui si opera e la relativa media salariale;

    3. correggere l’eventuale divario di genere riscontrato, se ingiustificato. Per fare questo, ogni momento è buono, ma volendo si può trovare una situazione particolarmente adatta come la valutazione annuale delle performance. Dopo aver riconosciuto un errore, comunque, è sempre importante passare all’azione per evitare che la questione passi in secondo piano e venga ulteriormente rimandata;

    4. rimuovere i fattori condizionanti dal processo di selezione. Il condizionamento, che sia conscio o inconscio, agisce profondamente sulle nostre decisioni, anche in fase di recruiting. Bisogna quindi provare a eliminare tutti quegli elementi che possano condizionare sia i candidati e le candidate, sia la persona incaricata di valutare l’assunzione. Un buon punto di partenza è l’eliminazione dei termini ambigui che possano potenzialmente scoraggiare candidati donna negli annunci di lavoro e favorire un linguaggio neutro. Un’idea può anche essere quella di istituire procedure di “blind CV”, richiedendo curriculum senza alcun riferimento a sesso, provenienza e altre caratteristiche che non attengono alle effettive competenze della persona;

    5. identificare driver di retribuzione legittimi per predire la retribuzione di collaboratore e collaboratrice. Grazie a sistemi di analytics avanzati possiamo identificare i fattori che devono influenzare le differenze salariali, eliminando il fattore “genere” per evitare discriminazioni. Gli elementi da considerare variano senz’altro da azienda ad azienda, ma ve ne sono molto ricorrenti performance migliori, più anni di formazione e career level. Tra questi driver vengono poi selezionati quelli legittimi, ovvero quelli considerati in linea con la filosofia retributiva desiderata dall’organizzazione;

    6. calcolare i cosiddetti “unexplained pay gap” sulla base della distribuzione che abbiamo appena descritto. Considerando solo i driver legittimi, calcoliamo la retribuzione “ideale” di ogni singola persona, ovvero quanto dovrebbe guadagnare in un mondo dove non vi è discriminazione di genere e la sua retribuzione è basata solo sui fattori che abbiamo selezionato. La differenza tra questa retribuzione ideale e quella reale sarà quindi dovuta dal fattore escluso dal modello, ovvero il genere: questo è quello che viene chiamato unexplained pay gap, che rappresenta la migliore misura di bias e discriminazione di genere in termini di retribuzione della forza lavoro;

    7. migliorare la trasparenza e aprirsi al cambiamento. Essere il più trasparenti possibile è fondamentale, specialmente sulle procedure che portano alla definizione dei salari, per ridurre le diseguaglianze. Dimostrarsi disponibili ad adattare le proprie retribuzioni alle situazioni del mercato attuale e delle performance individuali, anziché alle prassi del passato, aumenterà senz’altro il benessere e l’engagement del personale.

    Adottare tutte queste misure porterà sicuramente benefici in ottica di Employer Branding per risultare più accattivanti agli occhi dei talenti del futuro, migliorando il vantaggio competitivo dell’organizzazione, la produttività e la reputazione aziendale. 

    Al netto di questo, possiamo affermare che ridurre il divario contributivo di genere voglia dire, più semplicemente, fare la cosa più giusta.

     

     



    La parità di genere sul lavoro rimane un miraggio e il gender gap è ancora molto difficile da eradicare. 

    Ma perché? Ecco i motivi: 

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    Reverse è una realtà in continua evoluzione: come un gruppo di scienziati e ricercatori che giorno dopo giorno creano qualcosa di nuovo per migliorare e semplificare il mondo dell’Head Hunting e l’attività di chi si occupa di HR.
    Alessandro Raguseo, CEO